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Torino sul podio nazionale della cultura

Torino sul podio nazionale della cultura

Torino sul podio nazionale della cultura. La provincia con la Mole è al terzo posto in Italia nelle classifiche per l’incidenza sistema produttivo culturale e creativo nell’economia locale sia per valore aggiunto che per l’occupazione, in entrambi i casi con il tasso dell’8,1%.

La medaglia di bronzo a Torino è stata attribuita dal Rapporto “Io sono cultura”, promosso da Fondazione Symbola, Unioncamere, insieme a Regione Marche e Credito Sportivo, con la partnership di Fondazione Fitzcarraldo e Centro Studi delle Camere di Commercio Guglielmo Tagliacarne e con il patrocinio del ministero della Cultura.

Il Rapporto, giunto alla decima edizione, è l’unico studio in Italia che, annualmente, quantifica il peso della cultura e della creatività nell’economia nazionale. Uno studio che contiene, insieme a un’analisi del sistema pre-covid (2019), anche informazioni sul 2020, ricavate attraverso un’indagine condotta su un campione di oltre 1.800 imprese appartenenti al core del sistema produttivo culturale e creativo, confermando che cultura e bellezza del nostro Paese rappresentano tratti fondativi della società (da qui il titolo del rapporto) e, grazie alla loro forte relazione con la manifattura, hanno dato vita a una delle più forti identità produttive del mondo: il Made in Italy.

Nel 2019, il sistema produttivo culturale e creativo in Italia era in crescita e rappresentava il 5,7% del valore aggiunto italiano: oltre 90 miliardi di euro, cioè l’1% in più dell’anno precedente.

 

Oltre il 44% di questa ricchezza era generato da settori non culturali, manifatturieri e dei servizi, nei quali lavorano oltre 630.000 professionisti della cultura. Il sistema produttivo culturale e creativo dava lavoro a più di un milione e mezzo di persone, vale a dire il 5,9% dei lavoratori italiani. Dato in crescita rispetto al 2018: +1,4%, con una performance nettamente migliore rispetto al complesso dell’economia (+0,6%).

 

Nel rapporto “Io sono cultura” si trova che il 44% degli operatori della filiera stima perdite di ricavi nel 2020 superiori al 15% del proprio bilancio, mentre il 15% prospetta perdite che superano addirittura il 50%. A soffrire di più sono state le imprese dei settori performing arts e arti visive, quelle operanti nella conservazione e valorizzazione del patrimonio storico e artistico, per la maggiore esposizione alle norme di distanziamento sociale e molte delle imprese che rappresentano l’indotto culturale come, per esempio, parte della industria turistica nazionale.

Occorre tuttavia segnalare anche la presenza di settori in cui l’incidenza di imprese che dichiarano di aver sperimentato una crescita dei ricavi è tutt’altro che trascurabile – hanno scritto gli autori dello studio – in primo luogo il settore videogiochi e software (avvantaggiato dall’allontanamento sociale che ha aumentato la domanda di intrattenimento domestico), ma anche il comparto architettura e design”.

 

Comunque, la crisi pandemica ha evidenziato tante fragilità del settore. Prima su tutte la frammentazione tra i vari segmenti: “le diversità di mondi peculiari, che necessitano di norme e strumenti specifici, – si spiega – va accompagnata da una visione sistemica del settore e da un’idea di sviluppo condivisa, frutto di contaminazioni crescenti e necessarie per attivare una catena del valore che renda più sostenibili le produzioni culturali”.

 

In ogni caso, i numeri dimostrano che la cultura è uno dei motori dell’economia italiana. E la Lombardia, con 24,1 miliardi di euro e 353 mila addetti, si collocano ai vertici del panorama culturale italiano. Sono valori che, rispettivamente, incidono per il 7,3% e il 6,9%. In particolare, Milano si conferma prima su entrambi gli indicatori economici, con incidenze intorno ai dieci punti percentuali. A livello provinciale, Roma è seconda per valore aggiunto (8,7%) e quarta per occupazione (7,9%). Dopo Torino, terza, seguono, per valore aggiunto Arezzo (7,6%), Trieste (7,1%), Firenze (6,8%), Bologna (6,1%) e Padova (6,0%).

 

Come evidenzia il nuovo Rapporto, il ruolo della cultura non si ferma alla sola quantificazione dei valori della filiera. Importanti sono anche i legami tra cultura e turismo (la Lombardia è la prima regione per spesa turistica attivata dalla domanda di cultura con 3,9 miliardi di euro e quinta per incidenza della stessa sul totale della spesa culturale). Quanto al legame tra cultura e manifattura appare evidente nei distretti, ovvero in quelle aree dove è presente una rilevante concentrazione di professioni artigianali, che valorizzano competenze creative del made in Italy. Fra queste eccellenze distrettuali, fortemente orientate ai mercati esteri, si trovano Monza-Brianza, Arezzo, Alessandria, Modena, Reggio Emilia, Pesaro-Urbino.

In Piemonte, le imprese del sistema produttivo culturale e creativo sono quasi 21.000 a fine 2019: 7.556 attive nel settore architettura e design, 2.724 nella comunicazione, 837 nell’audiovisivo- musica, 2.457 nei videogiochi e software, 4.690 nell’editoria-stampa, 2.297 nelle performances arts e arti visive, infine 83 nel patrimonio storico e artistico.

Sfida tra acque minerali

Sfida tra acque minerali

C’è un altro “derby”, tra Italia e Francia, oltre a quello del vino. La nuova sfida è sul mercato delle acque minerali, che finanziariamente vale meno del nettare di Bacco (tre miliardi di euro contro undici); ma non è meno importante per la conquista delle tavole a livello mondiale. Le acque minerali, infatti, rappresentano un’eccellenza del food&beverage italiano, del quale costituiscono un turbo per le esportazioni agro-alimentari.

 

Anche se nel 2020, dopo quasi dieci anni di crescita ininterrotta, le vendite di acque minerali italiane all’estero hanno subito una battuta d’arresto a causa del Covid-19, comunque inferiore a quelle dei principali concorrenti, a partire proprio dalla Francia. Come rilevato dal Mineral Water Monitor, l’osservatorio Nomisma delle acque minerali e termali, che ha registrato anche una contrazione del mercato interno, per effetto della pandemia. Il Coronavirus, infatti, ha mutato il modello di consumo degli italiani, portando a un crollo delle vendite nel canale Horeca (Hotellerie, restaurant, cafe e catering), alla stazionarietà delle vendite in Gdo (Grande distribuzione organizzata), nonché al raddoppio del giro d’affari dell’e-commerce.

 

Comunque, escludendo il 2020, i dati del Mineral Water Monitor evidenziano il boom dell’export delle acque minerali italiane, raddoppiato in valore (+101%), tra il 2010 e il 2019. Un incremento ancora più significativo se paragonato a quello degli altri principali prodotti alimentari Made in Italy: le esportazioni dei formaggi nello stesso periodo sono aumentate del 93%, quelle dei vini del 64% e del 49% quelle della pasta. Solo l’export del caffè ha registrato performance migliori con una crescita del 119%.

 

A livello globale, l’Italia figura secondo posto tra i Paesi esportatori di acque minerali in termini di valore, con 539 milioni di euro nel 2020. È preceduta unicamente dalla Francia, prima con 651 milioni, mentre seguono le Fiji, al terzo posto con 121 milioni (nel 2019) e, al quarto, la Georgia, con 101 milioni. Le acque minerali delle Fiji sono molto apprezzate dagli Stati Uniti, mentre quelle della Georgia hanno un buon mercato in Russia.

 

Restando sul confronto tra Italia e Francia, è interessante una differenza tra il mercato del vino e quello dell’acqua minerale. Se sul vino i francesi vantano un posizionamento quasi doppio in termini di prezzo all’export (6,2 euro al litro contro i 3,6 euro dei vini fermi italiani), nel caso dell’acqua minerale è l’Italia ad avere un prezzo medio all’export più elevato, ossia 0,36 euro al litro contro 0,26 euro della Francia.

 

Grazie alla qualità delle sue acque, alla presenza di brand dalla forte notorietà e all’ottima percezione da parte del consumatore finale, negli ultimi anni l’Italia ha performato meglio dei suoi competitors stranieri e ha accresciuto la propria quota di mercato, confermando la propria leadership in alcuni Paesi. È questo il caso degli Stati Uniti, primo mercato al mondo per importazioni di acque (461 milioni di euro), dove l’Italia detiene la quota del 41%. Gli altri maggiori importatori delle acque del Bel Paese sono la Francia, dove l’Italia è leader con la quota dell’84% del mercato, la Germania, la Svizzera e il Regno Unito.

 

L’anno scorso, causa Covid, l’export italiano delle acque minerali ha subito una battuta d’arresto, calando dell’11% rispetto al 2019. Questo è avvenuto a causa del Covid, che ha provocato una contrazione dell’export pari all’11%. Meno della Francia (-15%). E questo ha permesso all’Italia di ridurre le distanze a 111 milioni di euro rispetto ai 211 di cinque anni fa. Nel 2020, tra i principali importatori mondiali di acque minerali, gli unici ad aver registrato un incremento degli acquisti dall’estero sono gli Usa (+6,8%). Gli altri Paesi, invece, hanno subito una contrazione delle importazioni: la Germania ha registrato un calo del 4,7%, il Giappone del 6,7%, il Regno Unito addirittura del 18,6%.

 

In Italia, le vendite di acque minerali stanno soffrendo particolarmente nel settore Horeca, a causa delle chiusure (o dei limiti di orari) di bar e ristoranti, della riduzione dei flussi turistici e dell’incremento dello smart working. La Gdo risulta stazionaria, mentre il canale e-commerce ha raddoppiato il giro di affari. Le restrizioni agli spostamenti durante il lockdown e la possibilità di ricevere la spesa direttamente a casa hanno fortemente incentivato le vendite online, raddoppiate tra il 2019 e il 2020 sia in termini di quantità (+94,5%) sia in termini di volume (+92,5%). Nonostante ciò, però, il peso dell’e-commerce sull’off-trade (Gdo e retail) risulta ancora marginale, rappresentando appena il 2%.

2020 anno amaro per i gelati

2020 anno amaro per i gelati

Gelati amari, quest’anno, nel giorno dedicato dal Parlamento europeo specificatamente al prodotto che nasce dall’arte gelatiera artigianale. La ricorrenza del 24 marzo, infatti, è caduta in piena emergenza Covid, con la pandemia che, in Italia, ha fatto crollare del 40% gli acquisti di coni e coppette, per effetto delle chiusure forzate, dei limiti agli spostamenti e della paralisi del turismo nazionale e, soprattutto, straniero.

 

I lockdown hanno fortemente penalizzato i consumi nelle gelaterie tradizionali; mentre hanno favorito il ritorno della produzione di gelato in casa e hanno addirittura generato un boom del gelato consegnato a domicilio, tanto che ne è stata registrata la crescita del 113% rispetto al 2019, secondo l’ultimo report dell’Osservatorio “Gelato-Delivery”.

 

Comunque, il cambiamento delle abitudini provocato ovunque dalle misure anti-Coronavirus ha fortemente condizionato, negativamente, l’attività delle 39mila gelaterie che in Italia danno lavoro a 75 mila persone. E sulla drastica riduzione delle vendite nel 2020 ha pesato molto l’assenza di 57 milioni di turisti stranieri, i quali sono, da sempre, tra i più entusiasti consumatori del gelato Made in Italy, offerto in una gamma che non ha eguali nel mondo per qualità e quantità, in funzione della varietà delle materie prime e dell’estro dei nostri maestri gelatieri.

 

Le difficoltà delle gelaterie artigianali, fra l’altro, si ripercuotono a cascata sull’intera filiera, perché, come ha ricordato la Coldiretti, nelle gelaterie italiane vengono utilizzati annualmente ben 220 milioni di litri di latte, 64 milioni di chili di zuccheri, 21 milioni di chili di frutta fresca e 29 milioni di chili di altri prodotti, con un evidente impatto sulle imprese fornitrici. Quantità che fino all’arrivo del Covid-19 erano in costante crescita, anche perché, con il cambiamento climatico, si sta verificando una sempre più marcata tendenza alla destagionalizzazione degli acquisti di gelato, non più limitata all’estate, come succedeva in passato.

 

E quello dell’ampio allungamento del periodo di consumo non è l’unico fenomeno riscontrato sul mercato del gelato, che vede crescere anche la tendenza all’offerta delle “specialità della casa” in risposta alle domande della clientela naturalista, dietetica o vegana. Non solo: negli ultimi anni si è registrato un vero e proprio boom delle agrigelaterie artigianali, che garantiscono la provenienza della materia prima – dal latte di asina a quello di capra, di bufala e di pecora (novità di quest’anno) – oltre che della grande varietà prodotti agroalimentari nazionali, per quanti chiedono il gelato al basilico piuttosto che al prosecco.

 

In epoca moderna – ricorda la Coldiretti – la storia del gelato risale alla prima metà del XVI secolo, con l’introduzione stabile di sorbetti e cremolati, nell’ambito di feste e banchetti alla corte medicea di Firenze; ma fu il successo dell’export del gelato in Francia a fare da moltiplicatore globale, fino al debutto ufficiale in terra americana con l’apertura della prima gelateria a New York, nel 1770, per iniziativa dell’imprenditore genovese Giovanni Bosio.

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