Dopo le maxi-stangate dell’anno scorso, le bollette di luce e gas sono diventate un po’ meno onerose, per le famiglie e le imprese. Ma, data la vulnerabilità energetica strutturale del nostro Paese, il rischio di nuovi rincari non si può escludere e, perciò, è meglio stare attenti, premunirsi e cercare le soluzioni più convenienti. Decisione opportuna e ora, con il libero mercato, possibile.
D’altra parte, ne vale la pensa. Basti pensare che nel 2022 il costo di luce e gas per le famiglie e le imprese del Piemonte è stato di 14,703 miliardi, più del doppio dell’anno precedente, quando era ammontato a 7,942 miliardi.
A livello nazionale, l’aumento delle bollette è stato di 91,5 miliardi di euro. Infatti, se le spese per l’energia elettrica sono aumentate del 109,5%, provocando in termini monetari un extracosto pari a 58,9 miliardi, quelle del metano sono cresciute addirittura del 126,4%, “alleggerendo” di 32,6 miliardi il portafoglio degli italiani.
La stangata ha colpito più le imprese che le famiglie. Se le prime hanno pagato 61,4 miliardi in più, le seconde, invece, “solo” – si fa per dire – 30 miliardi in più, come ha stimato l’Ufficio studi della Cgia.
A livello regionale il rincaro percentuale maggiore ha interessato l’Emilia-Romagna(+119,2%), il Friuli-Venezia Giulia (+119%) e il Trentino-Alto Adige (+118,3 per cento); ma di poco inferiore è stato quello del Piemonte (+117,5%). In termini assoluti, ovviamente, le più penalizzate sono state le regioni più popolate e con più attività economiche, come la Lombardia (+20,8 miliardi), l’Emilia- Romagna (+10,2 miliardi) e il Veneto (+10 miliardi).
Certo, a causa dell’aumento dell’inflazione, anche lo Stato centrale e le sue articolazioni periferiche hanno subito un’impennata della spesa energetica. Nel frattempo, però, l’incremento del gettito riscosso è stato molto rilevante. L’anno scorso le entrate tributarie erariali sono aumentate di 48,5 miliardi rispetto al 2021, ammontando così a 544,5 miliardi (+9,8%).
Questo aumento si deve anche al boom dell’Iva sui prodotti energetici, sui quali non tutti ci hanno rimesso. Molte aziende energetiche, ad esempio, nel 2022 hanno registrato un’impennata dei ricavi, tale per cui il Governo Draghi aveva istituito il contributo di solidarietà, che doveva consentire allo Stato di incassare 10,5 miliardi in più (al 30 novembre scorso, però, l’erario ha “ricevuto” solo 2,7 miliardi, tanto che la Corte dei Conti ha cercato di individuare le ragioni di questo flop, fra le quali la possibile traslazione del contributo sul consumatore finale).
Comunque, tra le misure attuate dal governo Draghi e quelle previste nel decreto Aiuti quater approvato dall’esecutivo guidato dalla Meloni, famiglie e imprese italiane nel 2022 hanno ricevuto aiuti per circa 70 miliardi contro il caro bollette. Pertanto, in linea puramente teorica, il maggiore aumento in capo a famiglie e imprese è stato di circa 20 miliardi.
Un importo puramente teorico, però, perché le imprese hanno utilizzato solo la metà degli aiuti messi a disposizione. Molte pmi, soprattutto quelle di piccola e micro-dimensione, infatti, hanno avuto grosse difficoltà nell’applicare la misura introdotta l’anno scorso, così non pochi hanno desistito.
Nel 2022 il prezzo dell’energia elettrica è più che raddoppiato (+142%), passando da 125 euro (media 2021) a 303 euro per MWh (media 2022): quello del gas, invece, è salito addirittura del 167%, passando da 46 euro (media 2021) a 123 euro (media 2022).
Il peggio, comunque, sembra essere ormai alle nostre spalle. A gennaio la media del prezzo dell’energia è scesa a 176 euro e quello del gas a 68 euro. Importi, quest’ultimi, in ogni caso superiori rispettivamente del 190 e del 240% se comparati con quelli di inizio 2021. Ma altri ribassi sono proseguiti, così che, secondo il Codacons, per la famiglia media la bolletta del gas potrebbe calare a 1.154 euro annui, con un risparmio di 237 euro rispetto alle tariffe oggi in vigore e per l’elettricità la bolletta media scenderebbe a 1.075 euro annui, con una minore spesa di 359 euro rispetto ai valori attuali (il risparmio complessivo tra luce e gas sarebbe di 596 euro annui a famiglia).
Il Codacons ha calcolato che rispetto alla spesa sostenuta nell’intero 2022 dalle famiglie italiane (1.866 euro per il gas, 1.322 euro per la luce) il risparmio complessivo per le forniture energetiche sul mercato tutelato raggiungerebbe quota 959 euro a nucleo.
Tuttavia sulle bollette di luce e gas pesa l’incognita del ritorno degli oneri di sistema. Il 31 marzo, infatti, scadrà l’azzeramento degli oneri sulle bollette dell’energia varato dal Governo, con la conseguenza che, in caso di mancata proroga del provvedimento, dal 1° aprile le bollette torneranno a salire, considerato che gli oneri di sistema pesano per il 10,7% sulle fatture della luce e per quasi il 5% su quelle del gas. E questa voce pesa per 12,4 miliardi all’anno sulla spesa energetica degli italiani.
Fra l’altro, una larga parte degli oneri di sistema serve a finanziare spese che nulla hanno a che vedere con i consumi energetici degli utenti, ricorda l’associazione dei consumatori, precisando che all’interno della voce oneri di sistema in bolletta si trovano infatti balzelli per coprire lo sviluppo tecnologico e industriale, la messa in sicurezza del nucleare, compensazioni territoriali, sostegno alla ricerca di sistema e, addirittura, regimi tariffari speciali per il servizio ferroviario universale e merci.
In ripresa, dopo il Covid, anche i matrimoni e le unioni civili. Secondo i dati provvisori dei primi nove mesi del 2022, in Italia, i matrimoni sono aumentati del 4,8% rispetto allo stesso periodo del 2021, ma non abbastanza per recuperare la quantità di nozze perse nel 2020 e soprattutto del 2019. Comunque, mettendo a confronto il 2022 con il 2021, l’Istat ha rilevato che crescono soprattutto i secondi matrimoni (+15,6%), mentre i primi matrimoni aumentano in misura molto più contenuta (+2,1%) e, tra questi, l’aumento è dovuto esclusivamente al rito civile (+8,2%). I primi matrimoni religiosi, infatti, mostrano una diminuzione del 2%.
Le unioni civili, a loro volta, aumentano di un terzo nei primi nove mesi del 2022, lasciando ipotizzare un parziale recupero di quanto perso nell’anno della pandemia.
Comunque, nel 2021, i matrimoni nel nostro Paese sono stati 180.416, quasi il doppio del 2020. Questa crescita, però, non ha colmato la perdita dell’anno della crisi pandemica che, con la celebrazione di 96.841 matrimoni, aveva evidenziato un calo del 47,4% rispetto al 2019, confermando la tendenza alla diminuzione della nuzialità in atto da oltre quarant’anni.
Nel 2021, i primi matrimoni (142.394, pari al 78,9% dei matrimoni totali), hanno ripreso a salire, fino a sfiorare i livelli registrati prima della pandemia. A crescere sono state soprattutto le prime nozze con sposo e sposa in età tra 30 e 34 anni (rispettivamente +140,9% e +148,5%), le classi di età più penalizzate nell’anno della pandemia.
Le libere unioni (convivenze more uxorio) sono più che triplicate tra il biennio 2000-2001 e il biennio 2020-2021 (da circa 440 mila a 1,450 milioni). L’incremento è da attribuire soprattutto alle libere unioni di celibi e nubili.
L’Istat ha rilevato, inoltre, che negli ultimi due decenni il netto ridimensionamento numerico delle nuove generazioni, dovuto alla fecondità bassa e tardiva, registrata a partire dalla metà degli anni Settanta, ha prodotto un effetto strutturale negativo sui matrimoni così come sulle nascite. Infatti, man mano che queste generazioni, molto meno numerose di quelle dei loro genitori, entrano nella fase della vita adulta si riduce la numerosità della popolazione in età da matrimonio e, di conseguenza, a parità di propensione a sposarsi, cala il numero assoluto di nozze.
Peraltro, l’aumento dell’instabilità coniugale contribuisce alla diffusione delle seconde nozze e delle famiglie composte da almeno una persona che abbia vissuto una precedente esperienza matrimoniale, fenomeno che genera nuove tipologie familiari.
La pandemia, però, ha colpito in maniera meno pesante i secondi matrimoni (-28,6% nel 2020 rispetto al 2019), cosicché la loro successiva ripresa, pur meno incisiva rispetto ai primi matrimoni, è tale da superare i livelli del 2019; infatti, nel 2021 sono stati 38.022, lo 0,2% in più.
La tipologia più frequente tra i matrimoni successivi al primo è quella in cui lo sposo è divorziato e la sposa è nubile (sono 12.444, il 6,9% dei matrimoni celebrati nel 2021); seguono le celebrazioni in cui entrambi gli sposi sono divorziati (6,3%) e quelle in cui la sposa è divorziata e lo sposo è celibe (5,7%).
Le percentuali più alte di matrimoni con almeno uno sposo alle seconde nozze sul totale delle celebrazioni si osservano in Liguria (36,1%) e Friuli-Venezia Giulia (32,5%).
Dalle statistiche dell’Istat, fra l’altro, emerge che nel 2021 sono state celebrate 24.380 nozze con almeno uno sposo straniero (+29,5% rispetto all’anno precedente). I matrimoni misti, in cui uno sposo è italiano e l’altro straniero, sono stati oltre 18mila. Quasi i tre quarti dei matrimoni misti riguardano coppie con sposo italiano e sposa straniera (13.703, pari al 7,6% delle celebrazioni a livello nazionale nel 2021). Le donne italiane che hanno scelto un partner straniero sono 4.595, il 2,5% del totale delle spose.
Nel 2021, gli uomini italiani hanno sposato una cittadina rumena nel 19,2% dei casi, ucraina nel 13,2% e russa nel 7,1%. Le donne italiane che hanno contratto matrimonio con un cittadino straniero hanno invece più frequentemente uno sposo di cittadinanza marocchina (12,1%) o albanese (9,7%)
La quota dei matrimoni civili osservata nel 2021 è risultata del 54,1%. Il rito civile è chiaramente più diffuso nelle seconde nozze (95%), essendo in molti casi una scelta obbligata e nei matrimoni con almeno uno sposo straniero (91,9%). La scelta del rito civile va però diffondendosi sempre di più anche nel caso dei primi matrimoni (43,1% nel 2021). Considerando i primi matrimoni tra sposi entrambi italiani (89% dei primi matrimoni) l’incidenza di quelli celebrati con rito civile è del 37,5% nel 2021.
La scelta del regime patrimoniale di separazione dei beni è risultata l’opzione prescelta dagli sposi nel 73,4% dei casi (74,7% nel 2020).
Mai così tanti dolci e gelati Made in Italy sulle tavole di tutto il mondo: nel 2022, le esportazioni di questi prodotti hanno fatto segnare il record storico, dato che il loro valore è ammontato a 9 miliardi di euro, grazie a un incremento del 18% rispetto all’anno precedente. È quanto emerge da una analisi della Coldiretti su dati Istat.
“Nonostante l’aumento dei costi energetici e delle materie prime, l’arte dolciaria italiana – sottolinea la Coldiretti – conquista i mercati esteri, spinta dalla voglia di qualità che la produzione tricolore garantisce”. Il principale mercato straniero per i dolci italiani è la vicina Francia, dove gli acquisti delle nostre prelibatezze sono cresciuti del 12%, arrivando a rappresentare circa un settimo delle esportazioni totali del settore.
Dopo la Francia vengono, a poca distanza, la Germania (aumento del 13% rispetto al 2021) e gli Stati Uniti, che hanno fatto rilevare il tasso d’incremento annuo più alto, con un balzo del 30%.
Ma gelati, dolci, caffè e cioccolato italiani hanno ampliato la loro clientela anche in Gran Bretagna (+11%), Spagna (+20%), Cina (+17%), Giappone (+13%), a testimonianza di un progressivo gradimento che non conosce confini.
Tra i singoli comparti, le performance migliori vengono dal caffè, che ha messo a segno una crescita del 28%, seguito dal gelato con un aumento del 18%; ma hanno evidenziato una crescita a doppia cifra anche la pasticceria (+16%), che rappresenta comunque la voce principale dell’export dolciario e la cioccolata (+11%).
“Si tratta del boom di un settore alimentato dalla voglia di dolcezze italiane sul quale, però, all’estero – precisa la Coldiretti – pesa la concorrenza sleale di prodotti taroccati, che utilizzano impropriamente parole, colori, località, immagini, denominazioni e ricette che si richiamano al nostro Paese ma che non hanno nulla a che fare con gli originali”.
La domanda di dolci italiani, comunque, è cresciuta anche sul mercato interno (+7,6% nei primi nove mesi dell’anno scorso, quando quella dei gelati, in particolare, è salita del 15,8 %).
La ricerca dell’italianità dolciaria si evidenzia anche nel fenomeno del fai da te, con quattro italiani su dieci che preparano in casa i dolci da portare a tavola, un’attività tornata a essere gratificante, magari con il coinvolgimento dei bambini e che assicura anche la possibilità di scegliere personalmente gli ingredienti.
Coldiretti segnala un altro fenomeno nel settore: le produzioni dolciarie con l’utilizzo di ingredienti 100% nazionali, dato che sempre più consumatori cercano prodotti con la garanzia della provenienza Made in Italy.
Una prova certa di questo trend è senza dubbio il gelato, come dimostra il vero e proprio boom delle agri-gelaterie artigianali, che garantiscono la provenienza della materia prima dalla stalla alla coppetta o al cono, con gusti che vanno dal latte di asina a quello di capra fino alla bufala e alla pecora.
Otto marzo. Festa della Donna, almeno nei Paesi civili e democratici. Si festeggia con mimose, rose, fiori, un dono, cena al ristorante. Se tutto va bene. Ma non va così ovunque e per tutte. Tanto che forse sarebbe più opportuno che l’8 marzo venisse celebrato, come alle origini, quale Giornata internazionale dei diritti della donna, istituita nel 1909, negli Usa (in Italia nel 1922), per ricordare non soltanto le conquiste sociali, economiche e politiche delle donne, ma anche, purtroppo, le discriminazioni e le violenze di cui le donne sono state e sono ancora oggetto.
L’8 marzo, pertanto, oltre che come festa andrebbe vissuto come giorno di riflessione e di bilanci, valutando, fra l’altro, i risultati ottenuti sul fronte della parità di genere, che l’Onu vorrebbe raggiunta completamente entro il 2030 (forse un’illusione più che una speranza).
Persino in Italia la parità di genere è ancora una meta lontana, soprattutto in certi campi e a certi livelli, nonostante norme che tendono a favorirla e le quote rosa. Però, indubbiamente, passi avanti ne sono stati fatti su questa strada, lunga e tortuosa. Le prove non mancano, in diversi settori, compreso quello economico in senso lato.
Fra l’altro, si susseguono sempre più frequentemente i casi di grandi affermazioni della presenza delle donne e di loro successi nella ricerca scientifica, nell’Università, nella medicina, nell’imprenditoria, nella politica, nella letteratura, nei vertici delle istituzioni pubbliche e private, nella giurisprudenza, nella finanza, nel management, nella magistratura, per arrivare fino all’astronautica e agli arbitraggi sportivi.
È un fenomeno auspicabilmente ineludibile, sicuramente logico. Se non altro perché le donne sono più degli uomini (in Piemonte 2,265 milioni, oltre centomila più dei maschi).
Tuttavia, proprio partendo dal mondo del lavoro, l’analisi della varietà di genere, fra l’altro, mostra che in Italia le donne con un’occupazione nel 2022 sono 9,763 milioni, sì un record e 566 mila più di dieci anni fa; ma ancora 3,7 milioni in meno rispetto agli occupati maschi (comunque, nel 2013 la differenza era addirittura di 4,7 milioni).
Il tasso di occupazione rosa (percentuale tra donne occupate e popolazione femminile) è salito al 51,3% (cinque punti in più rispetto al 2013); però, il differenziale con quello maschile, pur essendosi ridotto di 6,3 punti negli ultimi vent’anni, è ancora di 17,7 punti. E se il tasso di disoccupazione maschile è dell’8,8%, quello femminile è del 9,1%.
Non solo: è assodato che la presenza femminile cala all’aumentare del livello di responsabilità: in Italia, la quota di donne sul totale della forza lavora scende al 35,7% nei ruoli direttivi e al 22,6% a livello di consigli di amministrazione (un’eccezione si trova nei bord delle società quotate in Borsa, dove, in seguito anche a un obbligo normativo, la presenza femminile è salita al 41,9%).
Un’altra conferma della continuità della disparità di genere emerge dai censimenti delle imprese: in Italia, a fine 2022, le imprese femminili erano poco più di 1,337 milioni, numero corrispondente al 22,21% di tutte le aziende attive nel nostro Paese.
Consola, però, che le imprese femminili sono risultate più del 50% nel settore dei servizi, il 37,2% nella sanità e assistenza sociale, il 30,9% nell’istruzione, il 29,2% nelle attività di alloggio e ristorazione, il 28,1% nell’agricoltura e il 26,5% nel comparto noleggio, agenzie di viaggio e servizi alle imprese.
In particolare, in Piemonte, al 30 dicembre dell’anno scorso, le aziende rosa erano 95.593, il 22,4% del totale delle imprese registrate alle Camere di commercio della regione. Tre mesi prima, sono risultate 90 le startup femminili innovative in Piemonte, 17 in più rispetto alla fine del 2019.
Malgrado la pandemia, la guerra in Ucraina, l’aumento dell’inflazione e altre difficoltà, infatti, l’innovazione al femminile cresce. In Italia, sono diventate duemila le start up innovative femminili, 572 in più rispetto allo stesso periodo del 2019, arrivando a rappresentare il 13,6% del totale delle start up, con una crescita del 40% nel biennio.
Proprio a cavallo dell’epidemia da Covid 19, insomma, molte donne hanno dato vita a questa particolare tipologia di impresa, costituita nella forma di società di capitali, specializzata nello sviluppo, nella produzione e nella commercializzazione di un prodotto o servizio ad alto valore tecnologico.
L’aumento considerevole delle start up innovative va del resto di pari passo con il crescente impegno delle donne nei settori a maggior contenuto di conoscenza, come i servizi di informazione e comunicazione, le attività finanziarie e assicurative, le attività professionali, scientifiche e tecniche, l’istruzione e la sanità e assistenza sociale.
“La crescente propensione delle donne a impegnarsi in settori imprenditoriali più innovativi, oggi in gran parte ancora appannaggio degli uomini, è un fatto certamente positivo”, ha commentato il presidente di Unioncamere, Andrea Prete, aggiungendo: “speriamo che sempre più giovani vogliano seguire questo esempio, scegliendo di laurearsi in discipline Stem, oggi tanto ricercate dalle imprese”.
Fonti : Istat, Unioncamere, Unioncamere Piemonte e Consob.
In Italia quasi l’80% degli abitanti vive in una casa di proprietà, ma oltre la metà (55%) non conosce la classe energetica del proprio immobile.
Gli italiani, però, stanno prendendo sempre più coscienza dell’importanza di questo dato; infatti, la classe energetica viene indicata come molto importante o fondamentale dall’80% di chi prevede il trasferimento in una nuova abitazione.
Questa è una delle principali evidenze emerse dall’ultimo sondaggio sull’efficienza energetica degli immobili italiani fatta da Immobiliare.it, portale leader immobiliare in Italia, in seguito al via libera del Parlamento Europeo alla direttiva che punta al passaggio di tutte le abitazioni alla classe energetica E entro il 2030 e alla D entro il 2033.
Fra l’altro, a partire dal 1° gennaio 2012, gli annunci di vendita e locazione di immobili devono contenere obbligatoriamente la classe e l’indice di prestazione energetica dell’immobile, riportati nell’Attestato di Prestazione Energetica (Ape).
Nonostante ciò, è solo negli ultimi mesi che la classe energetica ha cominciato a essere sotto la lente d’ingrandimento e, non a caso, tra chi dichiara di conoscere la classe energetica del suo immobile, il 45% si trova tra le classi A e la D, a dimostrazione che si trattava di persone sensibili al tema già al tempo del loro acquisto.
Il nostro Paese ha un patrimonio immobiliare ormai vecchio, con la maggior parte di immobili in classe F o G. Però, la sensibilità ai temi energetici è sicuramente in aumento, tanto che la maggior parte degli intervistati da Immobiliare.it ha risposto di essersi messo all’opera per migliorare l’efficienza energetica dell’abitazione in cui vive: inoltre, il 49% ha affermato di aver effettuato dei lavori migliorativi recentemente, mentre il 13% ha dichiarato di averli programmati nel breve.
Per quanto riguarda la presenza di impianti quali cappotto termico o pannelli fotovoltaici, emerge una netta differenza tra condomini e abitazioni indipendenti. Il 30% di queste ultime, stando al sondaggio, dispone infatti di cappotto termico, percentuale che arriverà al 36% contando le abitazioni che hanno già in programma i lavori per predisporlo, mentre toccherà il 40% la percentuale di case indipendenti con i pannelli fotovoltaici (oggi al 32,2%).
Nei condomini, invece, più di otto abitazioni su dieci non dispongono del cappotto termico (solo il 5% ha in programma i relativi lavori), mentre nove su dieci non hanno, attualmente, i pannelli solari.
Questa differenza è senz’altro legata, almeno in parte, alle difficoltà riscontrabili nella vita condominiale. Infatti, nel 47% dei casi il tema delle nuove installazioni non è mai arrivato in assemblea e nel 44% non è stato fatto nulla per il mancato accordo tra tutti i condomini. Poco meno del 10%, poi, ha rinunciato alle implementazioni per il mancato ottenimento dei finanziamenti richiesti dal condominio.
In merito alle altre tipologie di lavori in casa effettuabili per migliorare l’efficienza energetica, a livello di popolarità si colloca al primo posto l’installazione di una nuova caldaia e/o condizionatore a elevata efficienza: quasi i tre quarti dei rispondenti ha agito o agirà in merito.
Al secondo posto gli infissi, con il 62%, che li ha indicati come miglioramento necessario (Immobiliare.it ricorda che questi elementi sono spesso determinanti perché un’abitazione in classe G o F possa passare alla E). Poco più della metà degli intervistati, inoltre, ha installato o installerà a breve nuovi elettrodomestici di classe A o superiore.
“La nuova attenzione verso i temi energetici delle nostre abitazioni va letta positivamente ed è certamente in linea con la direzione di raggiungere la neutralità climatica in Europa entro il 2050 – ha detto Carlo Giordano, esponente di Immobiliare.it – Però, ci sarà bisogno della massima attenzione da parte della classe politica del Paese per evitare situazioni di povertà energetica, ovvero la sovrapposizione di redditi bassi, costo energetico crescente e forte riduzione del valore degli immobili energivori”.