Il nostro Paese conta 36 mila operatori e nel 2021 ha prodotto un valore aggiunto pari a 2,94 miliardi di euro
Design: un altro primato italiano in Europa. Nel nostro Paese, questo macro settore della creatività
conta 36 mila operatori, articolati tra 20.320 liberi professionisti e lavoratori autonomi e 15.986 imprese che, con 63 mila occupati, hanno generato nel 2021 un valore aggiunto pari a 2,94 miliardi di euro.
In particolare, le imprese si distribuiscono su tutto il territorio nazionale, con una particolare concentrazione nelle aree di specializzazione del Made in Italy e in Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna e Veneto, regioni dove si localizza il 60% delle aziende del settore. Tra le provincie primeggiano Milano, Roma e Torino.
A fornire questi dati sono stati Fondazione Symbola, Deloitte Private e Poli.Design, aggiungendo che, secondo Eurostat, nel 2020 nell’Unione Europea risultavano attive 222.390 imprese di design, il 5,3% in più rispetto la precedente rilevazione.
Italia, Germania, Francia e Spagna nel complesso rappresentano insieme il 48% delle imprese dell’Unione europea. E l’Italia con la quota del 16,2% supera, seppur di poche imprese, la Francia, ma con tassi ben superiori la Germania (11,1%) e la Spagna (4,5%).
Lo studio della Fondazione Symbola evidenzia che la capitale del design italiano è indubbiamente Milano, alla quale si deve il 18% del valore aggiunto del settore a livello nazionale. Fra l’altro, Milano è sede del Salone del Mobilee del Fuorisalone, una delle più grandi manifestazioni al mondo dedicate al design.
Non solo: la Lombardia ospita il 29,4% delle imprese italiane del settore, per due terzi formate da liberi professionisti e lavoratori autonomi; genera il 32,5% del valore aggiunto nazioanle e il 28,5% dell’occupazione complessiva. La seguono altre tre regioni settentrionali, prima delle quali il Veneto (al secondo posto per quota di imprese con l’11,5%, al quarto per valore aggiunto con l’11 e al terzo per occupazione con l’11,6%).
Sul terzo gradino del podio nazionale del design si trova l’Emilia-Romagna, terza per quota di imprese (10,7%), ma seconda per valore aggiunto (13,3%) e occupazione (13%) e, subito sotto, il Piemonte, quarto per quota di imprese (8,5%), terzo per valore aggiunto (11,7%) e quarto per occupazione (11,5%).
Nel complesso, queste quattro regioni concentrano il 60% delle attività produttive del settore, ben il 68,6% del prodotto e il 64,6% dell’occupazione del Paese.
Se la Lombardia è in testa tra le regioni, Milano lo è, appunto, tra le province: l’area concentra il 14,3% delle imprese (con una presenza molto elevata di liberi professionisti e lavoratori autonomi, quasi il 65% del totale), il 18,4% del valore aggiunto prodotto e il 14,2% dell’occupazione nazionale.
Al secondo posto della classifica per numero di imprese emerge la provincia di Roma (6,6%), terza per prodotto (5,3%) e per occupazione (5,7%), a cui segue Torino (terza con il 5,1% delle imprese e unica area in cui le imprese prevalgono rispetto a liberi professionisti e lavoratori autonomi), ma seconda per valore aggiunto (13,3%) e occupazione (13%).
Torino precede anche Firenze, terza per quota di imprese (6%) quinta per valore aggiunto (3%) e settima per occupazione (2,7%) e Bologna, quinta per quota di imprese (2,8%) quarta per valore aggiunto (3,8%) e occupazione (3,8%).
Dall’indagine di Fondazione Symbola, fra l’altro, emerge che il tema della sostenibilità è molto rilevante per il settore: ben l’87,4% dei soggetti intervistati ne sottolinea l’importanza nei progetti in corso e la quota arriva al 96,5% nel caso delle piccole-medie imprese.
A questa centralità corrisponde una consapevolezza diffusa nei livelli di competenza, considerati alti o medi dall’86,9% degli intervistati, con una accentuazione per le organizzazioni di maggiore dimensione (97,1%). Per contro, la presenza di un livello minimo di competenze riguarda solo il 2,8% del totale.
Il sistema formativo del design è distribuito lungo tutto il Paese: sono ben 91 gli istituti accreditati dal ministero dell’Istruzione, di cui 28 Università, 16 Accademie delle Belle Arti, 15 Accademie legalmente riconosciute, 26 istituti privati autorizzati a rilasciare titoli Afam (Alta Formazione Artistica e Musicale) e 6 Isia (Istituti Superiori per Industrie Artistiche); per un totale di 303 corsi di studio, distribuiti in vari livelli formativi e in diverse aree di specializzazione.
Rispetto all’anno precedente, cresce del 4% il numero di corsi accreditati e attivati e del 12% il numero degli istituti, in particolare nel caso delle Università e degli altri istituti autorizzati a rilasciare titoli Afam.
A crescere, però, non sono solo gli istituti; ma anche la domanda e il numero degli studenti, essendone stati contati 14.907, cioè il 3,87% in più rispetto al precedente anno accademico.
Per i corsi di laurea universitari, la maggior parte sottoposti al vincolo del numero programmato, aumenta il numero di iscrizioni al test di ingresso, che supera di gran lunga il numero di posti disponibili, con una media nazionale di 2,5 domande per posto disponibile e punte di oltre 6 nel Nord Italia.
Mai come quest’anno, la “Giornata della Terra” è “sentita”: discussioni, denunce e riflessioni, coinvolgono veramente una gran parte della popolazione. Non c’è da stupirsi. Cresce di giorno in giorno, infatti, la consapevolezza dell’importanza della salvaguardia e del rispetto dell’ambiente in tutte le sue diverse componenti, a partire dalla terra e dalle acque, fondamentali per la vita nostra e delle generazioni future.
La Giornata della Terra (in inglese Earth Day), solennizzata già da più di 190 Paesi, un mese e un giorno dopo l’equinozio di primavera, quindi il 22 aprile, è nata nel 1962, in seguito alla pubblicazione del libro manifesto ambientalista “Primavera silenziosa” scritto dalla biologa statunitense Rachel Carson e al relativo movimento universitario, per sottolineare la necessità della conservazione delle risorse naturali della Terra.
Da allora, la Giornata della Terra ha continuato a coinvolgere sempre più, anche sotto la spinta dell’accelerazione degli eventi naturali catastrofici (inondazioni, frane, incendi), dalle preoccupanti variazioni del clima, i sempre più lunghi e frequenti periodi di siccità, l’aumento dell’inquinamento e della desertificazione, il surriscaldamento del pianeta e, fra l’altro, il progressivo consumo del suolo.
In Italia, con una media di 19 ettari al giorno e una velocità che supera i 2 metri quadrati al secondo, il consumo di suolo nel 2021 è tornato a crescere, sfiorando i 70 km quadrati di nuove coperture artificiali in un solo anno.
Tali superfici sono sostituite da nuovi edifici, infrastrutture, insediamenti commerciali, logistici, produttivi e di servizio e da altre aree a copertura artificiale, all’interno e all’esterno delle aree urbane esistenti. Una crescita solo in parte compensata dal ripristino di aree naturali, pari, nel 2021, a 5,8 km2, dovuti al passaggio da suolo consumato a suolo non consumato (in genere grazie al recupero di aree di cantiere o di superfici già classificate come consumo di suolo reversibile).
Il cemento ricopre ormai 21.500 km quadrati di suolo nazionale, dei quali 5.400, un territorio grande quanto la Liguria, riguardano i soli edifici, che rappresentano il 25% dell’intero suolo consumato (5.400 Km2).
Questa situazione emerge dal Rapporto 2022 del Snpa (Sistema nazionale protezione dell’ambiente), che fornisce il quadro aggiornato dei processi di trasformazione della copertura del suolo a livello nazionale, comunale e provinciale.
Tra il 2006 e il 2021, l’Italia ha perso 1.153 km quadrati di suolo naturale o seminaturale, con una media di 77 km all’anno, a causa principalmente dell’espansione urbana e delle sue trasformazioni collaterali che, rendendo il suolo impermeabile, oltre all’aumento degli allagamenti e delle ondate di calore, provoca la perdita di aree verdi, di biodiversità e dei servizi ecosistemici, con un danno economico stimato in quasi otto miliardi di euro l’anno.
Il suolo consumato pro capite in Italia, nel 2021, è aumentato di 3,46 metri quadrati per abitante e di 5,46 rispetto al 2019, confermando la tendenza di crescita. Si è passati, infatti, dai circa 349 metri quadrati per abitante nel 2012 ai circa 363 attuali. Tanto che la copertura artificiale del suolo è ormai arrivata al 7,13% (7,02% nel 2015 e 6,76% nel 2006), rispetto alla media Ue del 4,2%.
I valori percentuali più elevati del suolo consumato sono in Lombardia (12,12%), Veneto (11,90%) e Campania (10,49%). Gli incrementi maggiori di consumo di suolo nell’ultimo anno censito sono avvenuti in Lombardia, con 883 ettari in più, Veneto (+684 ettari), Emilia-Romagna (+658), Piemonte (+630) e Puglia (+499).
Invece, Valle d’Aosta, Liguria, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Molise, Basilicata e Calabria sono le regioni che, nel 2021, hanno avuto incrementi di consumo di suolo inferiori ai 100 ettari.
Il consumo di suolo è più intenso nelle aree già molto compromesse. Nelle città a più alta densità, dove gli spazi aperti residui sono spesso molto limitati, sempre nel 2021 si sono persi 27 metri quadrati per ogni ettaro di aree a verde. Tale incremento contribuisce a far diventare sempre più calde le nostre città, con il fenomeno delle isole di calore e la differenza di temperatura estiva tra aree a copertura artificiale densa o diffusa che, rispetto a quelle rurali, raggiunge spesso valori superiori a 3°C nelle città più grandi.
Il Veneto è la regione che ha la maggior superficie di edifici rispetto al numero di abitanti (147 m2/ab), seguita da Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Piemonte, tutte con valori superiori ai 110 m2/ab. I valori più bassi si registrano invece nel Lazio, in Liguria e Campania, rispettivamente con 55, 60 e 65 m2/ab, a fronte di una media nazionale di 91 m2/ab.
Un altro aspetto del consumo di suolo riguarda l’installazione di impianti fotovoltaici a terra. Nel 2021, oltre 17.500 ettari di suolo sono occupati da questo tipo di impianti, in modo particolare in Puglia (6.123 ettari, circa il 35% di tutti gli impianti nazionali), in Emilia-Romagna (1.872) e nel Lazio (1.483). E la transizione ecologica prevede un aumento di questa tipologia di consumo nei prossimi anni, stimato in oltre 50.000 ettari, circa otto volte il consumo di suolo annuale.
Le aree perse in Italia dal 2012 avrebbero garantito la fornitura complessiva di 4,150 milioni di quintali di prodotti agricoli e l’infiltrazione di oltre 360 milioni di metri cubi di acqua piovana, che ora, scorrendo in superficie, non sono più disponibili per la ricarica delle falde e aggravano la pericolosità idraulica dei nostri territori.
Una valutazione degli scenari di trasformazione del territorio italiano, nel caso in cui la velocità di trasformazione dovesse confermarsi pari a quella attuale anche nei prossimi anni, porta a stimare il nuovo consumo di suolo in 1.836 km2 tra il 2021 e il 2050. Se invece si dovesse tornare alla velocità media registrata nel periodo 2006-2012, si supererebbero i 3.000 km2.
Nel caso in cui si attuasse una progressiva riduzione della velocità di trasformazione, ipotizzata nel 15% ogni triennio, si avrebbe un incremento delle aree artificiali di oltre 800 km2, prima dell’azzeramento al 2050.
Sono tutti valori. Comunque, molto lontani dagli obiettivi di sostenibilità dell’Agenda 2030, che, sulla base delle attuali previsioni demografiche, imporrebbero un saldo negativo del consumo di suolo. Ciò significa che, a partire dal 2030, la “sostenibilità” dello sviluppo richiederebbe un aumento netto delle aree naturali di 269 km2 o addirittura di 888 km2.
Comunque, tutto il Pianeta è soggetto a fenomeni di degrado del territorio e del suolo rapidamente crescenti, che minano la fornitura dei servizi ecosistemici, sui cui si fonda la vita umana e che è il risultato di azioni di sovrasfruttamento indotte dall’uomo, causando il declino della sua fertilità, della biodiversità che ospita, con evidenti danni complessivi anche alla salute umana, azioni i cui impatti sono fortemente inaspriti dai cambiamenti climatici.
In Italia, nel 2022, il tasso di diffusione di internet è risultato pari al 91,4%
Forte accelerazione di Internet in Italia, ormai quasi alla pari con l’Europa. Come documentato dall’Istat, nel 2022 è risultato pari al 91,4% il tasso di diffusione di Internet tra le famiglie residenti nel nostro Paese e con almeno un componente di 16-74 anni, valore in linea con la media Ue27 (92,5%). L’Italia, quindi, negli ultimi tre anni ha recuperato il gap che la caratterizzava in passato. Però, se si allarga l’analisi a tutte le famiglie residenti sul territorio italiano la quota di quelle che dispone di un accesso a Internet scende all’83,1%. Nelle famiglie composte da soli anziani, infatti, l’Istat ha rilevato una minore diffusione: solo una su due (49,8%) dispone di un accesso, a fronte del 98,8% di quelle in cui è presente almeno un minore e del 93,4% di quelle senza minori ma i cui componenti non siano solo anziani.
L’analisi territoriale conferma il divario Nord-Sud: il Trentino-Alto Adige (88,9%) e la Lombardia (86,1%) sono le regioni con la percentuale più alta di famiglie connesse a Internet; all’opposto si collocano la Puglia (78,2%), la Basilicata (77,5%) e la Calabria (73,6%). La maggior parte delle famiglie senza accesso a Internet da casa indica come principale motivo la mancanza di capacità (59,9%) e il 21,5% non considera Internet uno strumento utile e interessante. Seguono motivazioni di ordine economico, legate all’alto costo dei collegamenti o degli strumenti necessari (11,9%), mentre il 7,8% non naviga in Rete da casa perché almeno un componente della famiglia accede a Internet da un altro luogo.
Nel 2022, il 77,5% della popolazione di sei anni e più ha usato Internet nei tre mesi precedenti l’intervista dell’Istat e il 65,1% si connette giornalmente. In particolare, oltre il 90% delle persone tra 11 e 54 anni si è connessa alla Rete negli ultimi tre mesi, mentre scende invece al 57,2% tra le persone di 65-74 anni e arriva al 20,9% tra le persone di 75 anni e più. Tra il 2020 e il 2022, l’uso della Rete è aumentato di sette punti. Il titolo di studio continua a essere un fattore discriminante, anche perché associato positivamente con l’età: naviga sul web l’88,6% di chi ha un diploma superiore contro il 74,9% di chi ha conseguito la licenza media. Tra gli occupati, le differenze tra dirigenti, imprenditori e liberi professionisti da un lato e operai dall’altro, negli anni si sono gradualmente attenuate (96% contro 88,2%).
Anche nel 2022 si conferma un uso della Rete prevalentemente rivolto all’utilizzo dei servizi di comunicazione. Negli ultimi tre mesi su dieci internauti di età superiore ai sei anni sette hanno usato servizi di messaggeria istantanea (68,9%), il 60,1% ha effettuato chiamate sul web e il 59,2% ha utilizzato la posta elettronica. Diffuso anche l’utilizzo della Rete per guardare video da servizi di condivisione come, ad esempio, YouTube (55,3%), ascoltare ascolta la musica sul web (45,6%) e partecipare ai social network (45,1%). Il 44,9% utilizza il web per leggere giornali, informazioni e riviste online. Il 46,1% delle persone di 14 anni e più si è rivolto alla Rete negli ultimi tre mesi per avere informazioni sulla salute.
Inoltre, il 25,1% ha preso un appuntamento con un medico tramite un sito web o una app, il 24% ha consultato il proprio fascicolo sanitario o la propria cartella clinica online e il 23% ha utilizzato il web per accedere ad altri servizi sanitari invece di recarsi personalmente dal medico o in ospedale. Un particolare aspetto dell’uso di Internet nella vita quotidiana è il commercio elettronico. Nel 2022 il 48,2% della popolazione di 14 anni e più ha usato Internet nei 12 mesi precedenti l’intervista per fare acquisti online.
Sono più propensi a comprare online gli uomini (52,4%, il 44,4% delle donne), i residenti nel Nord (52,8%, il 40,3% del Mezzogiorno) e, soprattutto, i giovani tra i 20 e i 24 anni (75,7%).Oltre alla frequenza con cui i cittadini ricorrono al commercio elettronico, l’indagine Istat ha rilevato anche la tipologia di beni e servizi acquistati per uso privato via Internet negli ultimi tre mesi: tra gli individui di 14 anni e più, è più diffuso l’acquisto di capi di abbigliamento, scarpe o accessori (19,4%), gli articoli per la casa, elettrodomestici esclusi (10,3%), i film o le serie in streaming o download (8,5%).
Infine, il 45,4% delle persone di 14 anni e più che hanno utilizzato Internet negli ultimi 12 mesi ha scaricato o stampato moduli dai siti web della Pubblica amministrazione (Pa), il 40,3%, ha preso un appuntamento mediante un sito web o una app della Pa (fra l’altro, per ambulatori, biblioteche o con funzionari pubblici) e il 27,1% ha consultato i siti web della Pa per avere informazioni su servizi, benefici, diritti, leggi, orari di apertura. Il 11,2% dichiara di aver fatto online l’iscrizione a scuola o università, l’11,4% di aver fatto online la richiesta di certificati o documenti (nascita, residenza, carta d’identità) e il 9,8% ha richiesto prestazioni di previdenza sociale (pensione o assegno unico).
Ma più di uno su tre ha riscontrato problemi nell’uso di app o siti della Pa o servizi pubblici.
Banca del Piemonte intervista Luca Mortarotti, Direttore di Lingotto Musica
La nostra Banca è accanto al Lingotto Musica da più di 15 anni per contribuire attivamente alla crescita e allo sviluppo culturale del nostro territorio.
Quanto conta che realtà radicate sul territorio collaborino insieme?
«Negli ultimi anni il valore del “fare rete” ha acquisito un ruolo sempre più strategico nel determinare la sostenibilità della filiera culturale. Anche il settore musicale, conscio della responsabilità morale e dell’eredità da tramandare alle nuove generazioni, ha provato a innescare effetti rilevanti sul tessuto economico locale mediante processi di aggregazione virtuosa con istituzioni e imprese. Nel nostro caso, la creazione di collaborazioni e partenariati stabili ha contribuito a finanziare le attività di Lingotto Musica, rinnovandone l’offerta senza mai prescindere dall’alta qualità dei repertori e degli esecutori coinvolti. Penso che la capacità di affrontare insieme le sfide del presente e anticipare quelle del futuro sia un fattore chiave per lo sviluppo di un territorio di cui ci sentiamo parte integrante».
In che modo la musica classica può contribuire allo sviluppo culturale della società, in particolare delle giovani generazioni?
«L’automatismo per cui la classica è propria di ambienti elitari e colti ha ostacolato una giusta considerazione di questo genere rispetto ad altri, che invece vengono associati con il divertimento e lo svago. La musica classica, come ogni altra forma d’arte, nasce e funziona nel momento in cui è rivolta a tutti. Certamente, la sua duplice natura di immediatezza e complessità può limitarne la fruizione; ma al di là degli inquadramenti concettuali, si rende condivisibile senza mediazioni né barriere, diventando occasione di supporto e crescita soprattutto in contesti di disagio o svantaggio sociale. In questo senso, abbiamo mosso i primi passi con l’iniziativa “Biglietto sospeso”, inaugurata quest’anno in collaborazione con il Sermig di Torino con l’obiettivo di coinvolgere chi non può permettersi di accedere abitualmente alle sale da concerto. Più consolidata è invece l’offerta di progetti educativi rivolti ai bambini, ai giovani e alle scuole, con cui tentiamo di arginare la carenza della musica nel percorso formativo delle nuove generazioni. È su questo campo che si gioca la sfida più difficile: quella cioè della formazione del pubblico di domani, da cui dipende la sopravvivenza stessa dello spettacolo dal vivo».
Cosa si aspetta dalla partnership con Banca del Piemonte in futuro?
«Fra le società che ci sostengono attualmente, Banca del Piemonte è quella che ci accompagna da più anni. Questo sodalizio prese il via nel 2008, proprio quando cominciai a lavorare per Lingotto Musica. Poter contare sulla continuità del rapporto con i nostri sponsor è fondamentale per immaginare e programmare il futuro a medio-lungo termine, tanto più in un momento storico come quello attuale, che richiede investimenti significativi sul fronte dell’innovazione. Non mi riferisco al prodotto artistico in sé: lo spettacolo dal vivo e il repertorio classico resteranno il nostro principale perimetro d’azione; quanto alla necessità di investire sul potenziamento della struttura interna e delle strategie di promozione per intercettare nuovo pubblico e diversificare l’attività. Tutte azioni impossibili da mettere in pratica in assenza di partnership forti e consolidate».
Come è cambiato il modo di fare musica in questi quindici anni di collaborazione fra Banca del Piemonte e Lingotto Musica?
«Non credo che il modo di fare musica dal vivo, di produrla e distribuirla sia cambiato in modo sostanziale. Sono cambiate piuttosto le abitudini di ascolto: certi repertori faticano oggi più di prima a trovare una risposta nel pubblico. In un mondo che tende a semplificare i concetti, e a condensarli nei 280 caratteri di un tweet, è sempre più difficile trovare una platea in grado di mantenere l’attenzione per un’ora consecutiva senza interruzioni. Lo testimonia, per esempio, il successo crescente della musica barocca a discapito del repertorio sinfonico tardoromantico».
Quale impatto ha avuto il Covid sull’attività di Lingotto Musica?
«Il Covid è stato un terremoto che ha fortemente sconvolto tutto il comparto dello spettacolo dal vivo, e il mondo della musica classica ne ha risentito più di altri. Sul piano finanziario, abbiamo superato questa congiuntura grazie alla generosità degli sponsor, Banca del Piemonte compresa, che nonostante la prolungata interruzione delle attività dal vivo non ci hanno abbandonato. Più significativa è stata invece la ricaduta sul pubblico: nella primavera del 2021, dopo oltre un anno di chiusura forzata, abbiamo ripreso le attività con il limite, imposto per decreto, delle 200 persone in sala; da allora è iniziata una lenta ma progressiva risalita della partecipazione, che ci fa guardare al futuro con ragionevole ottimismo. Lo scorso 28 febbraio, in occasione del concerto della Camerata Salzburg con la pianista Hélène Grimaud, abbiamo superato i 1700 spettatori: numeri che non vedevamo dal 2019. Ciò dimostra che di fronte a un’offerta di indiscutibile eccellenza il pubblico risponde ancora positivamente».
Quali saranno gli elementi di continuità e quali le novità della prossima stagione?
«Lingotto Musica ha basato la propria trentennale fortuna su due capisaldi: la qualità e l’internazionalità della propria proposta artistica. Direttrici su cui non abbiamo alcuna intenzione di derogare e che continueranno a guidare il nostro lavoro. Oggi, però, le risorse di cui disponiamo sono inferiori rispetto al passato e non possiamo più ragionare in termini autoreferenziali. Nella prossima stagione (che presenteremo tra fine maggio e inizio giugno) alcuni concerti saranno realizzati in collaborazione con altri prestigiosi enti (musicali e non) del territorio. Un cambio di passo che rivela, ancora una volta, quanto l’unione delle forze sia determinante per mantenere il livello cui abbiamo abituato il nostro pubblico. Sul piano artistico è prematuro fare anticipazioni, ma credo che i nostri abbonati si potranno ritenere soddisfatti da ciò che abbiamo in serbo».
L’anno scorso, in Italia, ha partecipato ad almeno uno spettacolo o intrattenimento fuori casa il 49,5% delle persone di 6 anni e più. La quota è superiore di 28,4 punti percentuali a quella del 2021, ma resta comunque su livelli inferiori al periodo prepandemico (64,6% nel 2019). Dal 2020, infatti, le restrizioni nell’accesso ai luoghi della cultura e dell’intrattenimento, disposte ai fini del contenimento della diffusione del Covid-19, hanno inciso notevolmente sulla fruizione della maggior parte delle attività di svago svolte fuori casa.
Lo ha rilevato l’Istat, facendo osservare che nel 2022, diversamente dal biennio 2020-2021, c’è stata una buona ripresa delle varie forme di spettacolo e fruizione culturale, con aumenti che vedono più che raddoppiare la partecipazione.
Gli aumenti più consistenti riguardano la fruizione del teatro che, nel 2022, presenta un valore quattro volte superiore rispetto al 2021. La partecipazione a concerti e il recarsi al cinema, in discoteca e a spettacoli sportivi risulta invece triplicata. Tuttavia, la ripresa registrata si arresta a valori inferiori al 2019 per tutte le forme di intrattenimento.
Tra il 2021 e il 2022 la partecipazione è in ripresa per entrambi i sessi, ma con aumenti superiori tra le donne per musei/mostre e teatro, viceversa per gli uomini aumentano più gli spettacoli sportivi, il cinema e le discoteche. Negli altri tipi di intrattenimento l’aumento è stato pressoché analogo. I giovani fino a 24 anni di età sono in genere più propensi a partecipare a forme di intrattenimento fuori casa: 73,3% contro il 43,7% della popolazione di 25 anni e più.
Nel 2022, il 10,8% delle persone ha incontrato tutti i giorni gli amici, ma la quota si è mantenuta ancora al di sotto del valore del 2019. Andamento simile si osserva per la percentuale di persone che ha visto gli amici almeno una volta a settimana (46,3% contro il 48,1% del 2019).
Dall’analisi territoriale emergono quote più elevate nella frequentazione giornaliera degli amici tra coloro che vivono nelle regioni dell’Italia meridionale e insulare, rispetto a chi vive nel Centro e nel Nord. Nel 2022, infatti, i valori più elevati di frequentazione giornaliera degli amici sono stati rilevati in Calabria, Basilicata e Molise (intorno al 17%) e risultano pari a più del doppio di quanto riscontrato in Piemonte, in Veneto e in Friuli-Venezia Giulia, dove sfiorano l’8%.
Comunque, è ripresa l’abitudine a mangiare fuori casa nel tempo libero: nel 2022 è stata pari all’82,3% la quota di persone di 6 anni e più che ha dichiarato di essersi recata nell’anno almeno una volta a pranzo o cena fuori casa (in trattoria, pizzeria, ristorante, birreria, ecc.), quota decisamente superiore a quella del 2021 (70,7%) e solo leggermente inferiore a quella registrata nel 2019 (83,5%).
Fra l’altro, è diminuito il numero di persone che lo ha fatto solo qualche volta l’anno (dal 39,3% del 2021 al 35,2% del 2022) a favore di quelle che vi si sono recate una o più volte al mese (dal 18,7% al 27,8%), una volta alla settimana (da 9,2% a 13,8%) o più volte alla settimana (da 3,5% a 5,5%). Mangiano fuori casa soprattutto gli adolescenti di 14-19 anni (90,4%) e i giovani di 20-34 anni (92,1%), molto meno la popolazione di 65-74 anni (75,2%) e, soprattutto, di 75 anni e più (55,6%). La tendenza degli ultimi dieci anni mostra come l’abitudine a mangiare nel tempo libero in ristoranti, birrerie, ecc. sia un’attività diffusa per la maggior parte della popolazione: interessa almeno tre cittadini su quattro. Le regioni con le quote più alte sono il Trentino (86,4%) e l’Emilia- Romagna (86,1%), mentre quelle con le percentuali minori sono la Calabria (72,8%) e la Sardegna (74,4%).
Le disparità più elevate si riscontrano soprattutto rispetto al livello di istruzione posseduto e, come presumibile, al livello delle risorse economiche familiari. Pranza o cena fuori casa il 92,1% dei laureati, l’87,8% dei diplomati, il 79% di quanti hanno solo la licenza media e soltanto il 53,6% tra chi al massimo possiede la licenza elementare. Inoltre, solo il 62% delle persone con risorse economiche ritenute assolutamente insufficienti ha l’abitudine di mangiare fuori, rispetto al 90,6% di coloro che hanno risorse economiche giudicate ottime.