La fotografia degli 11,5 milioni di italiani che investono 520 miliardi di euro in fondi comuni è stata scattata, alla fine dell’anno scorso, dallo specifico Osservatorio dell’Ufficio Studi di Assogestioni, che fa questa analisi dal 1996 con l’obiettivo di comprendere meglio come si evolvono le preferenze e le esigenze del risparmiatore italiano e che rappresenta un unicum a livello europeo.
Il valore medio dell’investimento degli italiani sottoscrittori in fondiè di 45.000 euro. Un importo che però varia a seconda della tipologia del prodotto scelto: più basso per i sottoscrittori di fondi italiani (27.000 euro), più elevato per i sottoscrittori di fondi esteri. Tra questi, il valore dell’investimento medio in fondi cross border si attesta a 52.000 euro.
Lo studio analizza anche la distribuzione della partecipazione al mercato dei fondi per modalità di sottoscrizione. In particolare, il versamento unico (Pic) rimane la forma prevalente, in quanto scelto dal 62%dei risparmiatori, mentre la quota dei sottoscrittori che investe prevalentemente tramite piani di accumulo (Pac) è pari al 22% e in forma mista il16%.
“Tra le evidenze più interessanti dell’Osservatorio – ha sottolineato Riccardo Morassut, senior research analyst dell’Ufficio Studi di Assogestioni – emerge la scelta degli investitori under 40, i Millennials e la Generazione Z, che individuano nel Pac il proprio prodotto preferito di investimento; infatti, supera il 50% la quota dei sottoscrittori più giovani che investe attraverso piani di accumulo. Viceversa, oltre il 70% dei Boomers, sceglie di investire in un’unica soluzione”.
L’asset allocation evidenzia valori differenziati in base alla tipologia di prodotto. Tra i fondi italiani prevale l’investimento in fondi flessibili (42%)e obbligazionari (26%), a cui seguono gli investimenti in fondi bilanciati (22%) e azionari (10%). Tra i prodotti esteri cresce la componente azionaria, con il valore per i fondi cross border, che si attesta a 48%. Resta stabile attorno al 30% il peso dei fondi obbligazionari, mentre diminuisce la quota dei fondi flessibili e bilanciati (11%).
La maggior parte dei fondi italiani è acquistata attraverso il canale bancario (95%). Il peso dei fondi distribuiti dalle reti di consulenti finanziari aumenta sensibilmente tra i prodotti esteri: per quelli a distribuzione concentrata è pari al 27%, per i fondi cross border sale al 45%.
L’età mediadei sottoscrittori italiani di fondi è 61 anni, con la generazione dei Boomersche pesa per il 41%del totale. A seguire, i risparmiatori della Generazione X con il 28%, le generazioni più anziane (ultra 77enni) che rappresentano il 18,5% e infine i risparmiatori più giovani (Millennials e Generazione Z), la cui partecipazione è più contenuta e si attestano al 13%.
“Gli under 40 stanno gradualmente iniziando a investire. Per questo, il 13% che rappresenta la quota di sottoscrittori più giovane, in particolare Millennials e Gen Z è da leggersi come un dato positivo: significa che i giovani scelgono lo strumento dei fondi per entrare nel mercato finanziario. Tuttavia – ha commentato Riccardo Morassut – l’investitore tipo, nel nostro Paese, è un investitore maturo e non stupisce che la sua età media sia di 61 anni: si tratta di una tipologia di risparmiatore che ha maggiori possibilità di investire rispetto alle generazioni più giovani, che però hanno appena iniziato a farlo”.
Infatti, a seconda dell’età varia anche l’ammontare dell’investimento: i sottoscrittori ultra 77enniregistrano investimenti più alti, che vanno mediamente dai 62.000 euro della Silent Generation agli 82.000 euro della Greatest Generation.
Rilevanti anche gli importi dei Boomers, pari a 53.000 euro. Le generazioni più giovani, invece, sono sotto la media nazionale: la Generazione X investe mediamente 37.000, i Millennials si attestano a 18.000 euro, mentre l’investimento della Generazione Z è 12.000 euro.
In questo contesto, non stupisce che circa la metà (47%) del patrimonio complessivamente investito appartenga alla generazione dei Boomers, mentre il 25% del patrimonio fa riferimento alle due generazioni più anziane (Silent e Greatest). I risparmiatori della generazione X detengono oltre un quinto delle masse totali (23%), mentre ai sottoscrittori più giovani è riconducibile il 5% del totale investito.
La differenza uomo-donna nell’universo dei sottoscrittori italiani si sta progressivamente annullando, in favore di un sostanziale equilibrio tra i generi, con le donne che oggi rappresentano il 47% degli investitori contro il 53% degli uomini. Anche l’investimento mediodi uomini e donne si sta avvicinando nei valori: i primi investono circa 47.000 euro, contro i 43.000 delle donne.
Se questo è il quadro nazionale complessivo, è interessante notare le diverse specificità geografiche, a cominciare dal tasso di partecipazione, che indica la percentuale di sottoscrittori in rapporto alla popolazione residente e la cui media nazionale è del 20%.
Dall’Osservatorio emerge che la regione con il tasso più alto di partecipazione è l’Emilia-Romagna con il 30,8%, seguita da Lombardia (28,4%), Piemonte(27,9%) e Liguria (26%). Liguria, Lombardia e Piemonte sono anche le regioni in cui l’investimento medio è più alto e pari a 51.000 euro, mentre in Emilia-Romagna e Lazio sfiora i 50.000 euro.
Le regioni del Nord d’Italia sono anche le prime per investimento complessivo: oltre 145 miliardi in Lombardia, quasi 68 miliardi in Emilia-Romagna e più di 60 in Piemonte.
Il fatto che quasi 12 milioni di italiani affidano la gestione dei propri risparmi ai fondi comuni evidenzia la diffusione capillare di questa tipologia di investimenti. Un dato che potrà aumentare ancora proporzionalmente alla crescita del livello di alfabetizzazione finanziaria degli italiani.
Banca del Piemonte, vicina alle famiglie e alle imprese colpite dal maltempo in Emilia-Romagna, azzera le commissioni su bonifici o altre forme di trasferimento fondi, disposti sui conti correnti dedicati agli aiuti per sostenere le popolazioni colpite dall’alluvione.
Tale iniziativa integra quella relativa alla sospensione dei mutui, con l’obiettivo di offrire un ulteriore supporto ai territori duramente colpiti in questi giorni dall’eccezionale maltempo.
Le commissioni sono azzerate per le operazioni di trasferimento fondi disposte dalle Filiali e dall’internet banking.
Ilmercato immobiliare residenziale nel 2022 si è chiuso con oltre 784mila transazioni, il 4,7% in più rispetto a quelle registrate l’anno precedente, per un valore stimato che ha sfiorato i 123 miliardi di euro. Questi sono alcuni dei dati contenuti nell’ultimo Rapporto immobiliare residenziale, realizzato dall’Osservatorio del mercato immobiliare dell’Agenzia delle Entrate in collaborazione con Abi, l’Associazione bancaria italiana. Il rapporto contiene anche un’analisi delle principali caratteristiche dei mutui ipotecari erogati per l’acquisto delle abitazioni.
Con le 784.486 transazioni registrate lo scorso anno, il mercato residenziale italiano ha confermato il trend positivo incominciato a partire dal 2014 e interrotto soltanto dal dato negativo del 2020 (-7,7%).
Nel 2022 l’incremento delle compravendite è stato più accentuato nelle aree del Sud, in rialzo del 7%, e nelle Isole, dove si è attestato intorno al 9%. E se la Lombardia è rimasta naturalmente la regione con il maggior numero di compravendite nel corso dell’anno (oltre 165mila), è stata l’Umbria a far segnare il maggior rialzo con oltre 11mila scambi e una crescita del 14,2%. Sono seguite la Basilicata (+12,6%) e il Molise (+10,7%).
Tra le grandi città, invece, in testa per maggiore incremento nel 2022 è risultata Palermo(+11,3%), seguita da Milano (+6,1%), Torino (+5,9%) e Bologna (+3,4%).
Nel complesso, comunque, l’anno scorso sono state vendute abitazioni per un totale di oltre 83 milioni di metri quadrati (+3,2%), con una superficie media per unità abitativa compravenduta pari a 106,8 metri quadrati.
I dati relativi al fatturato calcolato per l’anno 2022 mostrano una stima complessiva che ammonta appunto a quasi 123 miliardi di euro, 4,7 miliardi in più rispetto al 2021 (+3,9%). Quasi il 57% del fatturato ha riguardato acquisti di abitazioni ubicate nelle aree del Nord, circa il 25% è invece riferito ad abitazioni compravendute nel Centro e poco meno del 19% è stato dovuto a scambi di residenze del Sud e delle Isole. Il fatturato per scambi di abitazioni è aumentato in tutte le aree del Paese.
Per contro, rispetto al 2021, il valore medio di un’abitazione compravenduta è diminuito di 1.100 euro in media nazionale. Il calo maggiore si è osservato al Centro e nel Nord Est.
Dal Rapporto dell’Osservatorio di Agenzia delle Entrate e Abi, fra l’altro, emerge che lo scorso anno in Italia circa 364mila acquisti di abitazioni sono stati effettuati ricorrendo a un mutuo ipotecario. Il capitale medio finanziato è risultato di poco superiore a 138 mila euro, in aumento di 2.800 euro rispetto al 2021.
Nel 2022, il tasso medio applicato alle erogazioni per acquisto di abitazioni è salito, rispetto al 2021, di 0,63 punti percentuali, portandosi così al 2,5%. Tassi medi più elevati sono stati rilevati nelle regioni del Sud (2,75%) e del Centro (2,59%), mentre i tassi più bassi sono stati registrati nel Nord Est (2,31%). In lieve aumento è stata la durata media dei mutui (24,8 anni), analoga tra le aree del Paese, mentre la rata media si è attestata a 623 euro mensili.
All’interno del Rapporto è illustrato anche l’andamento dell’indice di accessibilità (affordability index), elaborato dall’Ufficio Studi dell’Abi, che sintetizza l’analisi dei vari fattori (reddito disponibile, prezzi delle case, andamento, tassi di interesse sui mutui) che influenzano la possibilità per una famiglia di acquistare un’abitazione contraendo un mutuo.
Nel 2022 il livello dell’indice di accessibilità è rimasto significativamente elevato nel confronto storico, pur in lieve riduzione rispetto al 2021, a seguito dell’avvio dei rialzi dei tassi di interesse da parte della Bce. Le tendenze dei primi mesi di quest’anno confermano la prosecuzione di una fase di riduzione dell’indice.
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Il 20 dicembre 2017, l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione con la quale ha dichiarato il 20 maggio di ogni anno la Giornata mondiale delle api. Lo ha fatto sulla base di un autorevole rapporto scientifico che ha portato alla ribalta internazionale il declino a cui stanno andando incontro le api e gli altri impollinatoriormai sull’orlo dell’estinzione a causa di diversi tipi pressione, molti dei quali prodotti dall’uomo: distruzione, degradazione e frammentazione degli habitat, inquinamento (in particolare da pesticidi), cambiamenti climatici e diffusione di specie aliene invasive, parassiti e patogeni.
La Giornata delle api ha quindi lo scopo di riportare all’attenzione generale l’importanza delle api e in generale di tutti gli altri impollinatori – vespe, farfalle, coccinelle, ragni, rettili, uccelli, finanche mammiferi – per la sicurezza alimentare, la sussistenza di centinaia di milioni di persone e per il funzionamento degli ecosistemi e la conservazione degli habitat.
Gli impollinatorisono animali che, visitando i fiori alla ricerca di nettare e polline, s’imbrattano di polline (gamete maschile, analogo allo sperma dei mammiferi) del quale sono ricchi le antere, cioè la porzione fertile degli organi sessuali maschili di un fiore. Passando poi ai fiori di altre piante, con il loro corpo trasferiscono il polline sullo stigma, parte più esterna del gineceo o pistillo (che rappresenta la parte femminile del fiore), fecondando l’ovario e consentendo così la riproduzione della pianta.
Circa il 70% delle 115 principali colture agrarie mondiali beneficia dell’impollinazione animale. In particolare, in Europa la produzione di circa l’80% delle 264 specie coltivate dipende dall’attività degli insetti impollinatori, il cui “servizio” solo in Italia ha un valore di alcuni miliardi di euro l’anno.
Tra gli impollinatori, le specie del genereApis sono le più̀ numerose: oltre 20.000 in tutto il mondo, gran parte delle quali selvatiche. La più popolare è l’ape domestica, conosciuta come ape italica. Il valore di questa specie, originaria dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa, nelle stesse aree che hanno visto sorgere le civiltà̀ antiche, è legato oltre che all’impollinazione anche alla produzione di miele, cera, propoli e pappa reale.
Il polline è la maggiore risorsa di sostanze nutritive per le api. Tuttavia, a causa delle differenze nel contenuto dei nutrienti, i pollini derivanti da diverse specie floreali non hanno la stessa qualità per il miele. In media, un’ape visita in genere circa 7.000 fiori al giorno e ci vogliono quattro milioni di esplorazioni floreali per produrre un chilogrammo di miele. Un lavoro che genera un valore economico stimato in circa 153 miliardi di euro l’anno su scala mondiale, 22 miliardi su scala europea e 3 miliardi su scala nazionale, secondo stime Coldiretti.
In tutta l’Unione Europea si contano almeno 600.000 apicoltori, che gestiscono 17 milioni di alveari e producono circa 250.000 tonnellate di miele l’anno. In Italia, gli apicoltori censiti in Italia nel 2020 erano 65.000, avevano 1,950 milioni di alveari, con una produzione di miele stimata in circa 25.000 tonnellate.
Negli ultimi anni, gli apicoltori devono fronteggiare il grave fenomeno della riduzione del numero delle colonie di api e il declino delle loro popolazioni. Diverse le cause: oltre alla distruzione, il degrado e la frammentazione degli habitat, la semplificazione del paesaggio, l’eliminazione di fasce inerbite e siepi, di filati e boschetti, l’agricoltura intensiva, la morte delle api per fame per via della ridotta disponibilità̀ o qualità̀ delle risorse alimentari, gli attacchi di agenti patogeni, i cambiamenti climatici, i pesticidi usati in agricoltura per la difesa delle colture agrarie, il diserbo operato in aree urbane e periurbane, i prodotti chimici utilizzati negli alveari per combattere i parassiti e i patogeni delle colonie.
Però, è possibile adottare una serie di misure per ridurre i rischi di effetti negativi per gli impollinatori promuovendo un’agricoltura sostenibile, che aiuta a diversificare il paesaggio agricolo e adotta processi ecologici come parte della produzione alimentare.
Nel 2022, l’Italia ha registrato una produzione di circa 23 milioni di chili di miele, molto lontana dai 30 milioni del 2010. Se la carenza di piogge ha consentito voli di raccolta regolari da parte delle api, le alte temperature e la mancanza di acqua con fioriture anticipate hanno costretto gli apicoltori a partire prima verso le aree montane e a portare razioni di soccorso e acqua negli alveari già nei primi giorni di agosto.
Ma oltre alla situazione climatica dell’anno più caldo di sempre i “pastori delle api” hanno dovuto fare fronte anche all’esplosione dei costi per le tensioni internazionali generate dalla guerra in Ucraina: dai vasetti di vetro alle etichette, dai cartoni al gasolio.
Comunque, in Italia si consuma circa mezzo chilo di miele a testa all’anno, sotto la media europea, che è di 600 grammi. In compenso, il nostro Paese vince in biodiversità con più di 60 varietà di miele dai Dop fino a quelli speciali in barrique o aromatizzati, dal tiglio agli agrumi, dall’eucalipto all’acacia.
Il miele prodotto in Italia, dove non sono ammesse coltivazioni Ogm, a differenza di quanto avviene ad esempio in Cina, è riconoscibile attraverso l’etichettatura di origine obbligatoria. La parola Italia, infatti, deve essere presente per legge sulle confezioni di miele raccolto interamente nel nostro Paese, mentre nel caso in cui il miele provenga da più Paesi Ue, l’etichetta deve riportare l’indicazione “miscela di mieli originari della Ue” indicando il nome dei Paesi e se invece proviene da Paesi extracomunitari deve esserci la scritta “miscela di mieli non originari della Ue.