Tecnologie digitali, nuove formule organizzative aziendali e nuovi modelli di business: quasi il 70% delle imprese ha investito in almeno uno di questi ambiti della trasformazione digitale nel 2022 e il 41,4% ha adottato strategie di investimento integrate in grado di combinare queste tre aree. Entrambi i dati risultano superiori ai valori medi del quinquennio 2017-2021.
Per accompagnare la transizione 4.0, l’anno scorso, le imprese hanno affiancato alla dotazione tecnologica figure specializzate, cui è richiesto un portafoglio di competenze digitali da applicare ai diversi processi aziendali: si va dagli analisti e progettisti di software, agli ingegneri elettronici e in telecomunicazioni, fino agli ingegneri energetici e meccanici.
Tra le figure tecniche spiccano i programmatori, i tecnici web e quelli esperti in applicazioni, ma anche i tecnici dell’organizzazione della gestione dei fattori produttivi.
È quanto emerge dalle analisi dei dati del Sistema Informativo Excelsior di Unioncamere e Anpal, realizzate in collaborazione con il Centro Studi Tagliacarne.
Complessivamente, le imprese hanno richiesto le competenze digitali di base per la comunicazione visiva e multimediale a 3,3 milioni di profili professionali ricercati (pari al 64% del totale delle assunzioni programmate), le abilità relative all’utilizzo di linguaggi e metodi matematici e informatici per circa 2,7 milioni di posizioni (il 51,9%) e la capacità di gestione di soluzioni innovative 4.0 per 1,9 milioni (il 37,5%).
Le indagini Excelsior evidenziano una crescita diffusa delle difficoltà di reperimento, che si intensificano al crescere del grado di importanza attribuito alle competenze richieste per lo svolgimento della professione.
In particolare, si passa da una difficoltà di reperimento del 41,8% nel caso di richiesta della competenza digitale di base al 44,2% per il grado di importanza elevato; per le capacità matematico-informatiche il gap è anche più ampio (dal 42,7% al 47,7%), mentre per le competenze 4.0 la difficoltà varia dal 43,7% al 47,1%.
Per gestire le sfide tecnologiche e gestionali che le imprese devono affrontare è strategico il possesso di e-skill combinate tra loro.
Nel 2022, la domanda di e-skill mix (ossia la padronanza di almeno due delle tre competenze digitali) ha riguardato 823mila posizioni (646mila l’anno precedente): il mix di competenze digitali è richiesto ai laureati per il 49,9% delle assunzioni, in particolare nelle materie Stem come ingegneria elettronica e dell’informazione (87,5%) e scienze matematiche e fisiche ed informatiche (87,2%).
La percentuale più alta (54,1%) di richiesta di e-skill mix riguarda però i diplomati Its Academy, a dimostrazione della centralità di questi percorsi formativi nei processi di trasformazione digitale e del loro stretto collegamento con le esigenze del tessuto imprenditoriale e produttivo.
Per i profili in possesso di tali mix di competenze le difficoltà di reperimento raggiungono il 47,3% della domanda (7,1 punti percentuali in più rispetto al 2021); in particolare si concentrano nell’ambito delle professioni specialistiche legate all’implementazione dei processi di digitalizzazione, quali matematici, statistici e professioni assimilate (l’82,7% delle entrate per le quali il mix di competenza è ritenuto strategico è di difficile reperimento), ingegneri elettrotecnici (80,8%), ingegneri elettrotecnici (71,3%), analisti e progettisti di software (64,7%) e progettisti e amministratori di sistemi informatici (64,2%).
A livello territoriale, a programmare il maggior numero di assunzioni per richiesta di capacità di utilizzare linguaggi e metodi matematici e informatici con grado di importanza elevato sono le province di Milano (oltre 113mila), Torino (44mila), Bologna (23mila) e Brescia (22mila).
Per quanto riguarda le competenze digitali di base, sono molto importanti, nell’ordine, per circa 168mila lavoratori ricercati in provincia di Milano, per 126mila a Roma, per quasi 57mila a Torino e per oltre 55mila in provincia di Napoli.
Le stesse province occupano le prime quattro posizioni nella graduatoria dei territori in cui è importante il possesso di competenze 4.0, rispettivamente per 80mila assunzioni programmate in provincia di Milano, quasi 56mila in quella di Roma, oltre 30mila a Napoli e circa 29mila a Torino.
I cambiamenti climatici si confermano al primo posto tra le preoccupazioni degli italiani per l’ambiente: così si è espressa oltre la metà della popolazione di 14 anni e più (56,7%) nell’ultima indagine specifica dell’Istat. Seguono i problemi legati all’inquinamento dell’aria, avvertiti dal 50,2% del campione, mentre al terzo posto si colloca la preoccupazione per lo smaltimento e la produzione dei rifiuti (40%).
L’inquinamento delle acque (38,1% del campione), l’effetto serra e il buco nell’ozono (37,6%) sono percepiti come ulteriori fattori di rischio ambientale a livello globale.
In fondo alla graduatoria, invece, vi sono le preoccupazioni che coinvolgono una quota ristretta di popolazione (circa una persona su dieci), come l’inquinamento elettromagnetico, le conseguenze del rumore sulla salute e la rovina del paesaggio.
Quest’ultima, comunque, è una preoccupazione in crescita nelle regioni del Nord ed è percepita in maniera più forte nelle regioni a vocazione turistica, per esempio in Trentino-Alto Adige, oppure in regioni industrializzate come la Lombardia.
L’analisi dei dati in serie storica mostra in che misura le preoccupazioni legate al clima siano, nel tempo, al centro dell’interesse degli italiani di 14 anni e più. La preoccupazione per l’effetto serra, che nel 1998 coinvolgeva quasi sei persone su dieci, è scesa di circa 20 punti percentuali e interessa nel 2022 soltanto il 37,6% degli intervistati dall’Istat.
In senso inverso, il timore per i cambiamenti climatici, indicato nel 1998 dal 36% delle persone, sale al 56,7% nell’ultimo anno.
Valutando insieme i due problemi – effetto serra e cambiamenti climatici – emerge che l’attenzione della popolazione italiana per la crisi ambientale aumenta in misura decisa dal 2019 (70% di cittadini preoccupati), l’anno caratterizzato dal diffondersi in tutto il mondo dei movimenti di protesta studenteschi ispirati ai “Fridays For Future” di Greta Thunberg.
L’inquinamento dell’aria rappresenta, invece, una preoccupazione costante per un italiano su due, da oltre venti anni. L’attenzione al dissesto idrogeologico è scesa molto: dal 34,3% nel 1998 al 22,4% nel 2022. Quest’anno, però, certamente tornerà a salire in seguito alle tragedie avvenute nel nostro Paese.
Rispetto all’inquinamento del suolo, dell’acqua e alla distruzione delle foreste, il problema più sentito è l’inquinamento delle acque (interessa in maniera costante circa il 40% delle persone). La distruzione delle foreste, che nel 1998 preoccupava il 25,2% della popolazione, scende al 21,9% nel 2022. Si mantiene costante la percentuale di coloro che ritengono l’inquinamento del suolo tra le cinque preoccupazioni prioritarie in tema ambiente (da 20,3% a 21,5%).
Tra le altre preoccupazioni emerge quella legata alla produzione e allo smaltimento dei rifiuti che presenta un andamento altalenante nell’arco di venti anni; dopo una crescita registrata nel 2021 che aveva riportato l’indicatore al livello del 1998 (da 46,7% a 44,1%), nel 2022 si registra un nuovo calo di circa 4 punti percentuali
Vivere in centri dell’area metropolitana rafforza la preoccupazione per l’inquinamento dell’aria (53,8%); sempre in questi comuni è elevata la percentuale di quanti si preoccupano dello smaltimento dei rifiuti (44,6%) e infine è più alta la percentuale di quanti lamentano problemi legati all’inquinamento acustico (15%).
Nei piccoli comuni, invece, aumenta, la sensibilità rispetto all’inquinamento del suolo (24,7%) e quella relativa al dissesto idrogeologico (25,5%).
L’età rappresenta un’importante determinante della variabilità delle preoccupazioni ambientali. I giovani fino a 24 anni sono più sensibili delle persone più adulte per quanto riguarda la perdita della biodiversità (il 31,1% tra i 14 e i 24 anni contro il 19,4% degli over55), la distruzione delle foreste (26,2% contro 20,1%) e l’esaurimento delle risorse naturali (30,3% contro 22,6%).
Gli ultracinquantacinquenni si dichiarano invece più preoccupati dei giovani per il dissesto idrogeologico (25,8% contro 16,6% degli under25) e l’inquinamento del suolo (22,4% contro 18,7%).
Inoltre, la quota di cittadini che esprime preoccupazione per lo stato dell’ambiente cresce all’aumentare del titolo di studio, con differenziali relativi particolarmente elevati rispetto ai cambiamenti climatici (63,9% tra chi ha la laurea rispetto al 52,2% tra chi ha al massimo la licenza media), alla produzione e allo smaltimento dei rifiuti (48,8% rispetto al 35,2%) e all’inquinamento delle acque (41,7% contro 35,1%).
L’analisi dei comportamenti ambientali e degli stili di vita e di consumo sono di grande interesse per capire come i cittadini si rapportano all’ambiente.
Nel 2022, il 69,8% degli intervistati dall’Istat dichiara di fare abitualmente attenzione a non sprecare energia, il 67,6% a non sprecare l’acqua e il 49,6% a non adottare mai comportamenti di guida rumorosa al fine di limitare l’inquinamento acustico. Inoltre, il 35% della popolazione legge le etichette degli ingredienti e il 22,5% acquista prodotti a chilometro zero
Lettori in calo. L’anno scorso, il 39,3% degli italiani con più di sei anni hanno letto almeno un libro per motivi non strettamente scolastici o professionali. La quota si è ridotta rispetto a quanto rilevato nei due anni precedenti, quando i lettori erano rispettivamente il 41,4% (2020) e il 40,8% (2021). Dal 2000, quando la quota di lettori risultò pari al 39,1%, l’andamento è stato crescente fino a raggiungere il picco massimo nel 2010 (46,8%), per poi ridiscendere progressivamente fino ad arrivare nel 2016 allo stesso livello del 2001 (40,5%).
In questo quadro, la contrazione registrata nel 2022 porta la quota di lettori al livello più basso mai registrato in quasi venticinque anni.
Comunque, anche nel 2022 si evidenzia una rilevante differenza di genere in favore delle donne: la percentuale delle lettrici è del 44% (-1,7 punti percentuali sul 2021), quella dei lettori del 34,3% (-1,6).
La quota più rilevante di lettori (il 44,4%) è formata da lettori “deboli”, cioè quelli che dichiarano di aver letto al massimo tre libri nei 12 mesi precedenti l’intervista fatta dall’Istat. Il 39,3% può, invece, essere considerato “lettore medio”, avendo letto da 4 a 11 libri nell’ultimo anno. Infine, soltanto il 16,3% ha letto almeno 12 libri nell’ultimo anno e appartiene perciò alla fascia dei lettori “forti”.
La quota di lettori forti è più alta tra le lettrici che non tra i lettori. Inoltre, valori più elevati di lettori forti si osservano tra le persone di 60 anni e più. Al contrario, sono gli uomini a presentare più spesso un profilo di lettore debole e anche i ragazzi di 11-14 anni.
A fronte di un profilo di lettore polarizzato prevalentemente sulla lettura di pochi libri, c’è comunque da osservare come nell’arco di 22 anni si sia registrato un lieve aumento del numero di libri letti in un anno; questo numero passa, infatti, da 6,3 del 2000 a 7,4 del 2022. Parallelamente, la quota di lettori forti aumenta di 4,3 punti percentuali. Tale andamento si è registrato principalmente tra le lettrici (che leggevano in media 6,3 libri in un anno nel 2000 e arrivano a 7,9 nel 2022) e tra i lettori di 60 anni e più, passati da 7,2 libri nel 2000 a 9 nel 2022.
L’analisi per fasce di età mette in evidenza nel 2022 una quota maggiore di lettori tra i più giovani (fino a 24 anni), con punte più elevate specialmente tra gli 11 e i 14 anni (57,1%), per quanto tra i giovanissimi la lettura complessiva non superi i tre libri l’anno per un lettore su due. A partire dai 25 anni di età l’abitudine alla lettura diminuisce, sebbene tra la popolazione di 55-59 anni si osservi un andamento nuovamente crescente, che regredisce però tra la popolazione ultra-sessantaquattrenne.
In assoluto, il pubblico più affezionato alla lettura è rappresentato dalle ragazze di 11-24 anni, tra le quali circa sei su dieci hanno letto almeno un libro nell’anno. La quota di lettrici scende sotto la media nazionale tra i 45-54 anni e dopo i 60, mentre per gli uomini è sempre inferiore al valor medio nazionale a partire dai 35 anni.
A partire dal 2010 l’analisi evidenzia, per quasi tutte le fasce di età, una diminuzione della quota di lettori negli anni successivi. Puntando l’attenzione sui giovani, si assiste a una decisa contrazione di lettori tra il 2010 e il 2016. Dopo il 2010 si assiste a una diminuzione importante di lettori anche tra gli adulti di 45 anni e più. Gli anziani dai 65anni in su mostrano una crescita di lettori tra il 2010 e il 2016 e una sostanziale stabilità negli anni a seguire. Su tale componente della popolazione pesa progressivamente la presenza di generazioni sempre più istruite e in migliore condizione di salute di un tempo.
L’abitudine alla lettura è più diffusa nelle regioni del Centro-Nord: nel 2022, ha letto almeno un libro il 46,3% delle persone residenti nel Nord-Ovest, il 45,8% di quelle del Nord-Est e il 42,4% di chi vive nel Centro. Al Sud la quota di lettori è del 27,9% mentre nelle Isole la realtà è molto differenziata tra la Sicilia (24%) e la Sardegna (40%).
Considerando l’ampiezza demografica dei comuni, l’abitudine alla lettura è molto più diffusa centri delle aree metropolitane, dove nel 2022 si dichiara lettore quasi la metà degli abitanti (47,8%). La quota scende al 36,3% nei Comuni con meno di 2mila abitanti. Tale divario potrebbe spiegarsi con una maggiore presenza di librerie e biblioteche nei centri di grandi dimensioni.
Anche il livello di istruzione rappresenta un elemento discriminante per le abitudini di lettura: tra le persone con un’età pari o superiore ai 25 anni, legge libri il 68,9% dei laureati, il 43,2% dei diplomati e solo il 17,1% di chi possiede al massimo la licenza media.
Sempre l’anno scorso, il 10,2% della popolazione italiana si è recata in biblioteca almeno una volta, dato superiore rispetto al 7,4% del 2021, ma ancora distante dal 15,3% del 2019. I giovani e i giovanissimi tra 6 e 24 anni sono i frequentatori più assidui, con una quota più che doppia rispetto al resto della popolazione.
Nel 2022, la quota di persone laureate che si è recata in biblioteca è di oltre sei volte superiore rispetto a quella di chi possiede al massimo la licenza media (16,8% contro 2,6%) ed è più di due volte superiore rispetto a quella di chi ha conseguito il diploma superiore (7,5%).
Nel complesso, le attività più diffuse tra gli utenti delle biblioteche sono “prendere libri in prestito” (57,6%), “leggere o studiare” (37,2%) e “raccogliere informazioni” (22,2%).
Tuttavia, i motivi della fruizione si diversificano ampiamente in base all’età. L’attività del prendere libri in prestito è svolta con prevalenza più alta dai giovani utenti fino a 14 anni e dagli anziani di 65-74 anni (circa 7 su 10). Al contrario, si recano in biblioteca per leggere o studiare prevalentemente i giovani tra 15 e 34 anni.</p
Al 6 luglio scorso, in Italia, sono 111.552 gli enti che risultano iscritti al Runts (Registro unico nazionale del Terzo Settore), di cui poco meno di 69.000 sono trasmigrati, ovvero enti precedentemente iscritti ai Registri regionali del Volontariato e della Promozione sociale.
Vi sono poi più di 24.000 imprese sociali i cui dati sono stati condivisi con il Runts dalla sezione speciale del Registro delle imprese tenuto dalle Camere di commercio e, infine, compaiono quasi 19.000 “nuovi” Ets (Enti del Terzo Settore), che si sono iscritti al Runts a partire dal novembre 2021.
Di questi nuovi iscritti, una parte sono enti effettivamente nati dopo l’avvio della riforma; un’altra è rappresentata da soggetti che hanno deciso di “emergere”, ovvero che non erano mai stati iscritti ad alcun registro pubblico. Infine, una terza parte è composta da organizzazioni che si erano iscritte a qualche albo settoriale o territoriale e che hanno deciso di “fare il salto” al Registro Unico.
Dunque, dopo meno di due anni, il Runts entra in una fase di maturità e, poco alla volta, diventa una vera e propria “anagrafe” degli enti del Terzo Settore, così come definiti dal codice del Terzo Settore del 2017.
Una componente importante del Terzo Settore è costituita dalle Inp (Istituzioni non profit), il 72,1% delle quali si avvale dell’attività gratuita di 4,661 milioni di volontari (dati Istat 2021). Complessivamente, le istituzioni non profit attive in Italia nel 2021 sono 363.499 e impiegano complessivamente 870.183 dipendenti.
Anche se in calo rispetto al 2015 (-15,7%), i volontari in Italia rappresentano uno dei pilastri portanti del settore, svolgendo attività che incidono fortemente sullo sviluppo economico e sociale del Paese, sulla qualità della vita, sulle relazioni sociali e il benessere dei cittadini.
Sia in termini di istituzioni che di volontari, la presenza più rilevante si registra nel Nord Italia.
Anche per il numero di volontari rispetto alla popolazione residente (790 volontari per 10mila abitanti a livello nazionale), prevalgono nella distribuzione le regioni settentrionali, insieme a quelle centrali, con 1.165 volontari per 10mila abitanti nel Nord-Est e 887 nel Nord-Ovest.
Considerando la forma giuridica delle Inp, le unità che si avvalgono di volontari sono nella stragrande maggioranza dei casi associazioni (89,1%); mentre le fondazioni sono l’1,8% e le cooperative sociali il 2,6%.
Le istituzioni che operano grazie al contributo dei volontari e i volontari stessi si concentrano nei settori delle attività culturali e artistiche, sportive, ricreative e di socializzazione, che insieme aggregano il 65,2% delle istituzioni con volontari e il 54,5% dei volontari. Seguono i settori dell’assistenza sociale e protezione civile (con il 10% di istituzioni e il 14,7% di volontari) e quello della sanità (4,4% di istituzioni e 9,8% dei volontari). Il 6,5% dei volontari presta invece la propria attività in istituzioni non profit a carattere religioso.
In particolare, la quota di istituzioni che si avvalgono di volontari è più alta nei settori dell’ambiente (86% delle istituzioni attive nel settore), delle attività ricreative e di socializzazione (85,6%), della filantropia e promozione del volontariato (84,6%), della cooperazione e solidarietà internazionale (83,1%) e dell’assistenza sociale e protezione civile (78,3%).
I volontari impegnati nel settore non profit sono per il 57,5% uomini e il 42,5% donne.
In generale, la dimensione delle Inp che si avvalgono delle attività gratuite dei volontari è abbastanza contenuta: più della metà ha meno di dieci volontari (54,2%). L’11,4% ha dimensioni estremamente modeste, con al massimo due volontari e il 42,8% ha un numero di volontari compreso fra tre e nove. Conta invece su un numero cospicuo di volontari (50 e più) il 6,4% delle istituzioni, concentrando il 40,1% dei volontari.
Rispetto al 2015 è cresciuta l’incidenza delle Inp di piccolissime dimensioni, con uno o due volontari (11,4% nel 2021, a fronte del 7,9% nel 2015) e anche la quota dei volontari delle istituzioni di dimensioni medio-grandi (29,7% di volontari a fronte del 27,4% nel 2015).
L’86,5% delle Inp attive nel 2021 è impegnato in attività rivolte alla collettività in generale, mentre il 13,5% orienta la propria attività ed eroga servizi a categorie di persone con specifici disagi.
Considerando le diverse categorie sociali con situazioni di fragilità, vulnerabilità o disagio, nel 55,8% dei casi le Inp si occupano di disabilità fisica e/o intellettiva, nel 32,9% di persone in difficoltà economica e/o lavorativa, nel 31,2% di persone con disagio psico-sociale, nel 25,3% di persone vulnerabili, per esempio in condizione di solitudine o isolamento.
A seguire, il 24,4% delle istituzioni dedite a categorie disagiate si occupa di minori, il 17,5% di familiari di persone con disagio, il 13,2% di persone affette da patologia psichiatrica e il 12,9% si occupa di immigrati, richiedenti asilo, rifugiati, profughi, Rom, Sinti e Caminanti.
A tre anni dallo scoppio della pandemia e in piena fase di ricostruzione e ripartenza, le industrie culturali e creative italiane risultano tra i settori strategici per facilitare la ripresa economica del Paese.
Non solo perché i numeri dell’ultimo decennio dimostrano che sono una fonte significativa di posti di lavoro e ricchezza; ma anche perché sono un motore di innovazione per l’intera economia e agiscono come un attivatore della crescita di altri settori, dal turismo alla manifattura creative-driven, ossia quella manifattura che ha saputo incorporare professionisti e competenze culturali e creative nei processi produttivi spesso orientati alla sostenibilità, traducendo la bellezza in oggetti e portando il made in Italy nel mondo.
Bellezza e cultura, quindi, sono parte del Dna italiano e sono alla base delle ricette made in Italy per la fuoriuscita dalle crisi.
In particolare, la cultura in Italia è una filiera in cui operano soggetti privati, pubblici e del terzo settore, che nel 2022 ha generato complessivamente un valore aggiunto pari a 95,5 miliardi di euro (+6,8% rispetto all’anno precedente). Inoltre, non soltanto ha recuperato gli oltre 43 mila posti di lavoro che si erano persi nel 2021, ma ha ancora incrementato del 3% l’occupazione del settore, portandola a 1.490.738 unità.
Nella filiera operano 275.318 imprese (+1,8% nel 2022 rispetto all’anno precedente) e 37.668 organizzazioni non-profit che si occupano di cultura e creatività, le quali impiegano più di 21 mila tra dipendenti, interinali ed esterni (il 2,3% del totale delle risorse umane retribuite operanti nell’intero universo del non-profit).
Complessivamente, per ogni euro di valore aggiunto prodotto dalle attività culturali e creative se ne attivano altri 1,8 in settori economici diversi, come quello turistico, dei trasporti e del made in Italy, per un valore pari a 176,4 miliardi di euro.
Complessivamente, dunque, cultura e creatività, direttamente e indirettamente, generano valore aggiunto per circa 271,9 miliardi di euro (15,9% economia nazionale).
Questi dati si trovano nella tredicesima edizione del rapporto realizzato da Fondazione Symbola e Unioncamere, con la collaborazione del Centro Studi delle Camere di Commercio Guglielmo Tagliacarne, insieme a Istituto per il Credito Sportivo, la Fondazione Fitzcarraldo e Fornasetti.
“La forza della nostra economia e del made in Italy – ha commentato Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola – deve molto, in tutti i campi, alla cultura e alla bellezza, che, più che in altri Paesi, oltre ad arricchire la nostra identità e alimentare la domanda di Italia nel mondo, possono aiutarci ad affrontare le difficili sfide che abbiamo davanti”.
E Andrea Prete, presidente di Unioncamere ha aggiunto: “Il nostro sistema produttivo culturale e creativo si configura sempre più come un conglomerato di attività capace di attivare in misura consistente il resto dell’economia. Fra l’altro, la spesa complessiva sostenuta dai turisti stranieri in consumi culturali (spettacoli teatrali, concerti, folklore, visite guidate, musei, mostre) ha sfiorato i 35 miliardi di euro nel 2022, pari al 44,9% della spesa turistica complessiva”.
Dalle attività core derivano 52,7 miliardi e circa 852 mila occupati (rispettivamente +7,2% e +3,3% rispetto al 2021), mentre le attività creative driven generano la ricchezza più elevata degli ultimi tre anni (42,8 miliardi di euro, +6,4% nell’ultimo anno) e danno lavoro a 639 mila occupati (+2,5% rispetto al 2021).
In particolare, il comparto dei videogiochi e software è quello che contribuisce maggiormente alla ricchezza della filiera con 14,6 miliardi di euro di valore aggiunto (il 15,3% dell’intera filiera e +9,6% rispetto al 2021) e con un incremento di oltre 12 mila posti di lavoro (+7%). È continuata, quindi, la dinamica positiva già sperimentata negli anni precedenti, sulla scia di un mercato digitale in espansione anche nel 2022.
Le regioni maggiormente specializzate nella cultura e nella creatività sono la Lombardia e il Lazio. In particolare, la Lombardia genera il più alto valore aggiunto nell’ambito del sistema, con 26,4 miliardi di euro, pari al 27,6% della intera filiera e al 6,8% della ricchezza prodotta nella regione. In termini occupazionali, nella regione sono impiegati 353 mila addetti, incidendo per quasi un quarto sull’occupazione nazionale della filiera culturale e creativa e per il 7,2% sul totale economia.
Il Lazio, con Roma come suo principale centro turistico e culturale, contribuisce per il 15% alla filiera nazionale e il 7,6% all’intera economia regionale, con un valore aggiunto di circa 14,4 miliardi di euro; gli occupati del settore sono 197 mila, pari al 13,2% del sistema nel suo complesso e al 7,1% dell’occupazione regionale.