Alla fine del 2021, la ricchezza netta delle famiglie italiane, misurata come somma delle attività reali (abitazioni, terreni, altri immobili) e delle attività finanziarie (depositi bancari, titoli, azioni, ecc.), al netto delle passività finanziarie (prestiti a breve termine, a medio e lungo termine e altri debiti), è risultata pari a 10.422 miliardi di euro, ossia 176 mila euro pro capite.
La ricchezza netta è aumentata di oltre 300 miliardi a valori correnti rispetto all’anno precedente (+3%), proseguendo la crescita iniziata nel 2019 e non interrotta dalla crisi pandemica; ma in termini reali si è ridotta dell’1,1%, in controtendenza rispetto a quanto osservato nel 2020 (+1,7%). Le attività reali (6.186 miliardi di euro) sono aumentate dello 0,3% a prezzi correnti (+16 miliardi), soprattutto per effetto delle abitazioni (+23 miliardi), il cui valore ha registrato una crescita per la prima volta dal 2012. Il valore degli immobili non residenziali, invece, si è ridotto (-1,5%), proseguendo la fase di contrazione in atto dal 2012.
Le attività finanziarie (5.237 miliardi) hanno segnato una crescita più robusta rispetto a quelle reali, pari al 6,6% (per un controvalore di 325 miliardi), trainata prevalentemente dalle azioni (+150 miliardi) e dalle quote di fondi comuni (+89 miliardi). È stata rilevante anche la crescita dei depositi (+70 miliardi), seppure meno accentuata di quanto osservato nel 2020 (+104 miliardi).
Le passività finanziarie sono aumentate del 3,7%, superando la soglia dei 1.000 miliardi. Si è osservato, in particolare, un incremento della componente dei prestiti (+3,8%).
A differenza di quanto registrato l’anno prima, nel 2021 la crescita della ricchezza finanziaria delle famiglie è tornata a beneficiare ampiamente dei guadagni in conto capitale (+4,3%, per un aumento complessivo di 210 miliardi), legati soprattutto alle azioni e alle quote di fondi comuni.
Questi dati sono della Banca d’Italia, la quale ha aggiunto che la ricchezza netta delle imprese a fine 2021 è risultata pari a 880 miliardi, l’8% in meno rispetto al 2020. Infatti, a fronte di un incremento della ricchezza lorda di circa 150 miliardi, a cui ha fortemente contribuito l’aumento dei depositi (+49 miliardi), le passività sono cresciute di 225 miliardi, principalmente per effetto dell’aumento del valore delle azioni e altre partecipazioni.
Tra le attività reali delle imprese, dopo la contrazione del 2020, ha ripreso a crescere il valore degli impianti e macchinari (+4,1%) che, insieme a quello delle altre opere (+5,7%), ha più che controbilanciato il calo del valore degli immobili.
Nel caso delle società finanziarie, poi, tra il 2020 e il 2021 la ricchezza netta è scesa da 717 a 686 miliardi. L’aumento della ricchezza lorda (+416 miliardi), costituita quasi esclusivamente da attività finanziarie, è risultato infatti inferiore a quello delle passività (+447 miliardi), il cui aumento è stato guidato dalla raccolta di depositi (+9,9%).
Infine, le amministrazioni pubbliche: alla fine del 2021 presentano un indebitamento netto di 1.467 miliardi, anche se il totale delle loro attività, sia finanziarie sia reali, è cresciuto del 3,6%; in particolare per quelle reali, la crescita è stata guidata dall’aumento del valore delle opere del genio civile (+24 miliardi) e degli immobili non residenziali (+9 miliardi).
Tornando alle famiglie, Banca d’Italia ha rilevato che alla fine del 2021 oltre la metà della loro ricchezza lorda era composta da attività reali (54%) e, in particolare, da abitazioni (45%) e immobili non residenziali (6%). Quanto all’incidenza delle attività finanziarie è salita al 46% dal 44% del 2020. In particolare, nel portafoglio finanziario si è osservata una costante diminuzione della quota di titoli (dall’8 al 2%, tra il 2005 e il 2021) a favore di altri strumenti finanziari, in particolare quelli del risparmio gestito (dall’11 al 17% nello stesso arco temporale).
Lo stock di azioni e altre partecipazioni (nel 2021 pari all’11% del totale della ricchezza lorda) è aumentato di un punto percentuale rispetto al 2020, riavvicinandosi ai livelli del 2005 (12%).
Comunque, la ricchezza netta delle famiglie italiane cresce meno che negli altri Paesi: a fine è risultata pari a 8,6 volte il reddito disponibile, valore superiore a quelli di Germania, Regno Unito e Stati Uniti, ma inferiore a quanto registrato dalle famiglie canadesi, francesi e spagnole.
Misurata poi in rapporto alla popolazione, la ricchezza netta pro capite delle famiglie italiane alla fine del 2021 era inferiore a quella di tutti gli altri Paesi, a eccezione della Spagna.
Con un fatturato che supera ormai i 15 miliardi di euro all’anno, la pizza si conferma un tesoro del Made in Italy e simbolo del successo della dieta mediterranea nel mondo. Lo ha sostenuto la Coldiretti in occasione della Giornata internazionale della pizza, che si celebra il 17 gennaio. Rotonda, quadrata, con o senza “cornicione”, a tranci, sottile, spessa, croccante o soffice, con mozzarella e pomodoro o con fiori di zucca e alici, oppure con verdure grigliate, la pizza è uno dei piatti storici più versatili della cucina italiana, tanto che, nel 2017, l’Unesco ha proclamato l’Arte dei pizzaiuoli napoletani patrimonio immateriale dell’umanità.
La pizza è anche la colonna portante di un sistema economico, costituto in Italia da 121mila locali, dove si prepara e si serve, una occupazione stimata dalla Coldiretti in 100.000 addetti a tempo pieno e di altrettanti 100.000 nel weekend.
In Italia – continua la Coldiretti – si sfornano 2,7 miliardi di pizze all’anno che, in termini di ingredienti, significano 200 milioni di chili di farina, 225 milioni di chili di mozzarella, 30 milioni di chili di olio di oliva e 260 milioni di chili di salsa di pomodoro.
La passione per la pizza, nata a Napoli, è diventata ormai planetaria: gli americani ne sono i maggiori consumatori, con 13 chili a testa; mentre gli italiani guidano la classifica in Europa con 7,8 chili all’anno, staccando così spagnoli (4,3), francesi e tedeschi (4,2), britannici (4), belgi (3,8), portoghesi (3,6) e austriaci che, con 3,3 chili di pizza pro capite annui, chiudono la classifica dei maggiori consumatori continentali.
La diffusione internazionale della pizza, però, ha anche favorito lo sviluppo di ricette che nulla hanno a che fare con l’originale: vengono usati gli ingredienti più fantasiosi, a partire proprio dai frutti tropicali come ananas, banane o noce di cocco, ma anche di dolci, come i marshmellow americani o il creme caramel, di specialità locali come le haggis, le interiora di pecore scozzesi, la carne australiana di canguro e coccodrillo o quella di renna finlandese, fino ad arrivare alle versioni con insetti, dai grilli alle cicale e con scorpioni.
Comunque, in Italia, per garantirsi un prodotto tradizionale, più di quattro famiglie su dieci (44%) preparano la pizza in casa, sulla spinta della nuova passione per il fai da te in cucina, ma anche per poter scegliere personalmente gli ingredienti nostrani al 100%: dalla mozzarella alle farine di grano, dalle passate di pomodoro all’olio extravergine d’oliva, fino alle verdure e ai salumi.
In Italia continua a crescere la domanda di personale laureato da parte delle imprese, ma quasi in un caso su due la ricerca risulta particolarmente difficile.
Come mostra il Bollettino annuale 2022 del Sistema informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere e Anpal, nello scorso anno, la domanda di laureati nel nostro Paese ha superato le 780 mila unità, arrivando a rappresentare il 15,1% del totale dei contratti che le imprese intendevano stipulare e 1,4 punti percentuali in più rispetto al 2021.
Il 47% di questi profili, però, è risultato difficile da trovare, richiedendo alle imprese una ricerca anche di 4-5 mesi.
La difficoltà di trovare laureati da parte delle imprese è persino superiore al già elevato dato medio riferito a tutte le entrate programmate. Infatti, a fronte di una crescita significativa delle entrate che erano previste nel 2022 (5,2 milioni, in aumento dell’11,6% rispetto al 2021 e del 12,2% rispetto all’anno prima della pandemia), il mismatch ha superato la quota del 40% delle entrate complessive, oltre 8 punti percentuali in più rispetto allo scorso anno e 14 punti percentuali in più rispetto al 2019.
In termini assoluti, questo si traduce in quasi due milioni di assunzioni nel 2022 per le quali le imprese hanno riscontrato difficoltà, circa 600 mila in più rispetto all’anno scorso, ma quasi il doppio di quanto evidenziato prima della pandemia (un milione).
Lo “zoccolo duro” dell’occupazione nel settore privato, comunque, è rimasto quello dei diplomati: 1,5 milioni quelli ricercati durante lo scorso anno, sia pure in calo di quasi 2 punti percentuali rispetto al 2021, quando la loro richiesta ha raggiunto il 32,5%. In questo caso, la difficoltà di reperimento si è attestata al 40%.
Un ragionamento specifico riguarda la domanda di qualifiche professionali e di profili per i quali non è richiesto alcun titolo di studio.
Sono infatti numerosi i casi in cui le imprese hanno dichiarato di ricercare profili che abbiano frequentato la sola scuola dell’obbligo, in quanto non riuscivano a trovare la qualifica professionale specifica e con un bagaglio di esperienze adeguato.
Per questa ragione, Excelsior distingue la domanda “esplicita” di qualifiche professionali (nel 2022 pari a oltre un milione di ingressi, il 19,4% del totale, con una difficoltà di reperimento pari al 48%) dalla domanda potenziale. Quest’ultima è stata di quasi 1,9 milioni di unità, arrivando a rappresentare il 36% delle entrate programmate e registrando il 43% di difficoltà di reperimento.
Analogamente, è stata pari al 36% la quota delle entrate esplicite programmate senza l’indicazione di un titolo di studio, ma è scesa al 19% nel caso in cui si consideri la domanda “potenziale” relativa alle qualifiche professionali.
Tra i profili più difficili da trovare nel 2022 sono stati i laureati in indirizzo sanitario paramedico (con una difficoltà di reperimento del 65%), i laureati in ingegneria elettronica e dell’informazione (61%) e quelli in scienze matematiche, fisiche e informatiche (60%), i diplomati in elettronica ed elettrotecnica (60%) e quelli in meccanica, meccatronica ed energia (56%), i qualificati con indirizzo elettrico (57%).
Nel 2022, l’indirizzo economico si è attestato saldamente in cima alla classifica tra le lauree maggiormente ricercate dalle imprese: quasi 207 mila le entrate che erano state previste lo scorso anno. Al secondo posto l’indirizzo insegnamento e formazione con 116 mila ingressi previsti, poi l’indirizzo sanitario e paramedico (oltre 76 mila), l’indirizzo di ingegneria civile e architettura (57 mila) e l’indirizzo di scienze matematiche, fisiche e informatiche (54 mila).
Tra i diplomi, spicca quello con indirizzo amministrativo, finanza e marketing (quasi 440 mila), quello in turismo, enogastronomia e ospitalità (226 mila) e quello in meccanica, meccatronica ed energia (153 mila). A seguire, l’indirizzo socio-sanitario (125 mila) e trasporti e logistica (108 mila).
Tra le qualifiche professionali, infine, ai primi posti per numero di entrate programmate nel 2022 spiccavano l’indirizzo ristorazione (256 mila), l’indirizzo meccanico (164 mila), quello edile (77 mila), quello in trasformazione agroalimentare (70 mila) e quello relativo ai servizi di vendita (58 mila).
Per effetto dei cambiamenti climatici, oggi nella Pianura Padana si coltiva circa la metà della produzione nazionale di pomodoro destinato a conserve e di grano duro per la pasta – colture tipicamente mediterranee – mentre i vigneti hanno conquistato le pendici delle, al Sud è boom per le coltivazioni tropicali – dall’avocado al mango fino alle banane – e la coltivazione dell’ulivo è arrivata a ridosso delle Alpi.
È quanto emerge dall’analisi della Coldiretti in riferimento ai dati del rapporto Copernicus che evidenzia come il 2022 sia stato il secondo anno più caldo mai registrato in Europa e addirittura il più rovente di sempre in Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Gran Bretagna e Irlanda.
In Italia la temperatura media è stata infatti superiore di 1,15 gradi con la caduta del 30% di precipitazioni in meno, rispetto alla media storica del periodo 1991-2020, secondo le elaborazioni basate sulla banca dati Isac Cnr che rileva le temperature dal 1800.
“Si accentua dunque – sottolinea la Coldiretti – la tendenza al surriscaldamento in Italia dove la classifica degli anni più roventi negli ultimi due secoli si concentra nell’ultimo decennio e, dopo il 2022, comprende nell’ordine il 2018, il 2015, il 2014, il 2019 e il 2020”.
Il risultato è un profondo cambiamento sul paesaggio, sulla distribuzione e stagionalità delle coltivazioni e sulle stesse caratteristiche dei prodotti più tipici del Made in Italy.
Si è verificato nel tempo un significativo spostamento della zona di coltivazione tradizionale di alcune colture come l’olivo, che è arrivato alle Alpi. È infatti in provincia di Sondrio, oltre il 46esimo parallelo, l’ultima frontiera settentrionale dell’olio d’oliva italiano. “Negli ultimi dieci anni – precisa la Coldiretti – la coltivazione dell’ulivo sui costoni più soleggiati della montagna valtellinese è passata da zero a circa diecimila piante, su quasi 30 mila metri quadrati di terreno”.
E il vino italiano è aumentato di un grado negli ultimi 30 anni, con la vendemmia che viene anticipata anche di un mese rispetto al tradizionale settembre, smentendo quindi il proverbio “ad agosto riempi la cucina e a settembre la cantina”, ma anche quanto scritto in molti testi scolastici che andrebbero ora rivisti.
Fra l’altro, il caldo ha cambiato la distribuzione dei vigneti che tendono a espandersi verso l’alto, come conferma la presenza della vite a quasi 1.200 metri di altezza come nel comune di Morgex e di La Salle, in Valle d’Aosta, dove dai vitigni più alti d’Europa si producono le uve per il Blanc de Morgex et de La Salle Dop.
Con la tropicalizzazione del clima in Italia è cresciuta la presenza di frutta esotica, con le coltivazioni di banane, avocado, mango & c. che, nel giro di cinque anni, sono praticamente triplicate sfiorando i 1.200 ettari fra Puglia, Sicilia e Calabria.
A far la parte del leone in questo comparto è proprio la Sicilia con coltivazioni ad avocado e mango di diverse varietà nelle campagne tra Messina, l’Etna e Acireale, ma anche a frutto della passione, zapote nero (simile al cachi, di origine messicana), sapodilla (dal quale si ottiene anche lattice), litchi, il piccolo frutto cinese che ricorda l’uva moscato.
Ma anche in Puglia i frutti tropicali sono ormai una realtà consolidata, spinta dagli effetti della siccità: c’è una impennata delle coltivazioni di avocado, mango e bacche di Goji Made, insieme a tante altre produzioni esotiche come le bacche di aronia, le banane e il lime.
Tropicali italiani – aggiunge la Coldiretti – si diffondono anche in Calabria, dove alle coltivazioni di mango, avocado e frutto della passione si aggiungono melanzana thay (variante thailandese della nostra melanzana), macadamia (frutta secca, a metà tra mandorla e nocciola) e addirittura la canna da zucchero, mentre l’annona, altro frutto tipico dei Paesi del Sudamerica si sta ampliando lungo le coste, tanto da essere usato pure per fare la marmellata.
“L’agricoltura è l’attività economica che più di tutte le altre vive quotidianamente le conseguenze dei cambiamenti climatici; ma è anche il settore più impegnato per contrastarli” ha commentato il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini, sottolineando che “i cambiamenti climatici impongono una nuova sfida per le imprese agricole, che devono interpretare le novità segnalate dalla meteorologia e gli effetti sui cicli delle colture, sulla gestione delle acque e sulla sicurezza del territorio”.
Nella Giornata mondiale dell’olivo è stato ricordato che l’Italia è il primo Paese importatore e il secondo esportatore mondiale di olio, con circa il 15% della produzione complessiva e la superficie olivetata nazionale si estende su 1,1 milioni di ettari, in gran parte in Puglia, Calabria e Sicilia (ma la produzione olivicola in diverse regioni italiane raggiunge livelli qualitativi eccellenti).
L’annata 2022/2023 si presenta particolarmente scarsa in termini di volumi a livello nazionale ed europeo. Nel nostro Paese, dove si contano 250 milioni di olivi, la produzione non raggiunge le 230 mila tonnellate, con un calo di oltre il 30%, dovuto agli effetti dell’alternanza produttiva, delle alte temperature e, in alcune aree, per l’attacco della mosca olearia.
I numeri della filiera italiana, comunque – ha sottolineato Confagricoltura – raffigurano un comparto di tutto rispetto: fatturato annuo di 3,3 miliardi di euro (2,2% dell’agroalimentare), 640 mila imprese olivicole, circa 5.000 frantoi e 220 imprese industriali.
È stata anche evidenziata la forte integrazione del comparto con il territorio e la ruralità, rivestendo l’olivicoltura un ruolo primario nella tutela e nella valorizzazione delle produzioni locali. Sono circa 50 i riconoscimenti Dop e Igp, che rappresentano quasi la metà di quelli complessivamente registrati nell’Unione europea, con un valore di 91 milioni di euro (in crescita del 27%).
Anche l’indotto legato all’oleoturismo sta assumendo un’importanza crescente in termini culturali, sociali ed economici.
A sua volta, la Coldiretti ha rilevato che, con il crollo della produzione nazionale di olive, gli italiani devono dire addio a oltre una bottiglia di olio extravergine Made in Italy su tre, mentre l’esplosione dei costi mette in ginocchio le aziende agricole e con l’inflazione volano sugli scaffali i prezzi al dettaglio.
In Puglia, cuore dell’olivicoltura italiana, si arriva a un taglio del 52% della produzione, a causa prima delle gelate fuori stagione in primavera e poi dalla siccità, mentre continua a perdere terreno il Salento, distrutto dalla Xylella, che ha bruciato un potenziale pari al 10% della produzione nazionale. Ma crollano anche la Calabria (-42%) e la Sicilia (-25%).
La situazione migliora spostandosi verso il Centro e il Nord, con il Lazio che registra un progresso del 17%, l’Umbria e la Toscana fanno ancora meglio con +27%, mentre l’Emilia-Romagna cresce del 40% e la Liguria del 27%. Incrementi ancora maggiori in Veneto (+67%) e in Lombardia (+142%), dove gli uliveti si estendono dalle sponde dei laghi di Garda, Como e Maggiore, fino alle valli alpine.
In questo scenario, i costi delle aziende olivicole sono aumentati in media del 50% e quasi una su 10 (9%) lavora in perdita.
L’Italia – hanno ricordato Coldiretti e Unaprol – è fra i primi tre maggiori consumatori di olio extravergine di oliva al mondo con circa 480 milioni di chili (in testa è la Spagna, seguita dagli Usa) e rappresenta il 15% dei consumi globali.
Gli italiani usano annualmente, in media, otto chili di olio extravergine di oliva a testa e ogni famiglia spende in media 117 euro per acquistarli.
L’olio, utilizzato da oltre il 97% degli italiani nell’ultimo anno, è anche l’alimento più popolare sulle tavole nazionali, addirittura più di pane e pasta.