Lo ha scritto Raffaele Lungarella su lavoce.info sottolineando che gli ostacoli che incontrano sono la manifestazione del più generale problema dello squilibrio tra la domanda e l’offerta di abitazioni in affitto e che una sistemazione abitativa meno onerosa per gli studenti fuori sede necessita sia di azioni specificamente indirizzate a loro sia di interventi di portata più ampia, che migliorino le possibilità di accesso al mercato della locazione per tutti coloro che non possono pagare i canoni del libero mercato.
Al 1° novembre 2022, i posti alloggio offerti dagli enti per il diritto allo studio erano 40.069, il 90% dei quali occupati da studenticon una borsa di studio; ma, alla stessa data, erano 95 mila gli studenti in possesso dei requisiti per concorrere all’assegnazione di un posto alloggio gestito da quegli enti.
Il Pnrr, con un finanziamenti di 960 milioni di euro, dovrebbe aumentarne il numero di circa 60 mila entro il 2026, anche con interventi da parte di operatori non pubblici, che riceveranno un contributo per la loro realizzazione. La normativa, però, non indica se e in che misura il contributo pubblico inciderà sul canone richiesto agli studenti.
Servono ovviamente anche altre azioni sul versante sia dell’offerta sia della domanda. Sul primo versante, l’iniziativa più rilevante da intraprendere dovrebbe avere come obiettivo l’ampliamento dell’offerta di alloggi affittati a canoni concordati, che sono più bassi di quelli di mercato. Ne beneficerebbero tutti gli inquilini alla ricerca di abitazione a basso canone.
Il principale canale di aiuto agli studenti fuori sede è la detrazione fiscale del 19% su una spesa per l’affitto massima di 2.633 l’anno, con un risparmio di 500 euro, pari al canone di un mese per un posto letto in una grande città. Nel 2021 se ne sono avvalsi 232.724 contribuenti, su un canone medio di 1.646 euro. Ne deriva che il numero di studenti per i quali è stata applicata la detrazione è notevolmente inferiore a quello dei contribuenti che ne hanno beneficiato: poco più di 145 mila, un dato molto più basso di quello degli studenti fuori sede.
Nelle città con una forte capacità di attrazione sia di studenti universitari sia di turisti pesa anche la preferenza di non pochi proprietari per gli affitti di brevissima durata (pochi giorni, quando non uno), che sottraggono una parte dell’offerta di alloggi alla locazione annuale (tipica per gli studenti, in genere) o di più lunga durata.
Comunque, occorre innanzitutto ampliare l’offerta complessiva di abitazioni per l’affitto, considerando però che i giusti propositi sul consumo del suolo non permettono di puntare sulla costruzione di nuove abitazioni.
Occorre, perciò, operare sull’offerta del patrimonio esistente per accrescerne la parte accessibile alle famiglie e ai soggetti meno abbienti. È possibile farlo utilizzando la leva fiscale, limitando l’applicazione della cedolare secca ai canoni concordati, che, essendo più bassi di quelli di mercato, assolvono anche una funzione sociale.
Ma è necessario anche valutare la fattibilità di interventi di edilizia agevolata, incentivati con contributi pubblici, destinati alla locazione temporanea o permanente a canoni contenuti.
Degli effetti di queste eventuali decisioni, i fuori sede beneficeranno anche indirettamente: l’ampliamento dell’area dei canoni meno onerosi, infatti, allenta la domanda sul mercato libero delle locazioni, con conseguente contenimento anche dei relativi canoni.
A proposito di sistemazioni per studenti e lavoratori fuori sede, alla vigilia del nuovo anno accademico, alle porte, l’ultimo rapporto di Immobiliare.it Insights, società del gruppo Immobiliare.it, ha rilevato che lavoratori e universitari quest’anno si troveranno ad affrontare una situazione ancora caratterizzata da rincari dei prezzi, anche se non in tutte le città. Dall’altra parte avranno a disposizione un’offerta del mercato più cospicua, visto l’aumentare diffuso degli alloggi di questa tipologia (+34% per le singole).
Infatti, lo studio evidenzia un aumento dell’offerta molto importante soprattutto nei centri satellite, come Brescia (+75%), Latina (+68%) e Bergamo (+49%), che ora si propongono come alternativa ai poli di maggiore dimensione, grazie anche alla presenza di collegamenti rapidi con la grande città e un’offerta didattica spesso similare.
La domanda, comunque, continua a crescere: la richiesta per le singole è salita del 27% rispetto al 2022.
Milano, dopo aver fatto partire la protesta delle tende poco prima dell’estate, per la prima volta negli ultimi anni, frena sui rincari. Rimanendo comunque la più cara, con un costo medio delle singole di626 euro al mese, “appena” l’1% in più rispetto all’anno scorso grazie all’aumento dell’offerta (+36%), oltre che della domanda (+15%).
Per quanto riguarda le singole, dunque, Milano resiste sul gradino più alto del podio; mentre Bologna supera per la prima volta Roma: per potersi permettere una stanza tutta per sé nel capoluogo emiliano bisogna mettere a budget 482 euro, a fronte dei 463 euro nella Capitale.
In quarta posizione c’è Firenze con 435 euro. Quasi appaiate Modena e Bergamo, con 412 euro e 411 euro rispettivamente. Superano, appena, la soglia dei 400 euro anche Padova e Verona (404 euro e 401 euro, rispettivamente). Poco al di sotto di questa cifra, chiudono la top10 nazionale Venezia (396 euro) e Brescia(385 euro).
A Torino il costo medio per una singola è di 373 euro, il 3% in più rispetto all’anno scorso.
Diversa la situazione se si vanno a esaminare i prezzi del posto letto in doppia: se il capoluogo lombardo conserva la prima posizione con 348 euro, al secondo posto si trova invece Roma con 272. Terza posizione è Napoli con 258 euro. Seguono Firenze (255 euro) e Bologna (249 euro). Sesta Padova a 231 euro, seguita da Modena, dove un posto letto costa 226 euro. A Torino la media è di 219 euro (+14%).
Continua a diminuire il numero degli artigiani in Italia, che dal 2012 ne ha persi quasi 325 mila (-17,4%). Lo ha denunciato la Cgia, precisando che, secondo gli ultimi dati resi disponibili dall’Inps, nel 2022 il nostro Paese contava 1.542.291 artigiani.
“Possiamo quindi affermare – ha scritto la Cgia – che non solo i giovani sono sempre meno interessati a lavorare in questo settore, ma anche chi ha esercitato la professione per tanti anni e non ha ancora raggiunto l’età anagrafica e/o maturato gli anni di contribuzione per beneficiare della pensione, spesso preferisce chiudere la partite Iva e continuare a rimanere nel mercato del lavoro come dipendente che, rispetto ad un artigiano, ha sicuramente meno preoccupazioni e più sicurezze”.
Girando per le nostre città e i paesi di provincia si constata che sono ormai in via di estinzione tantissime attività artigianali. Sono ormai ridotte al lumicino le botteghe che ospitano calzolai, corniciai, fabbri, falegnami, fotografi, lavasecco, orologiai, pellettieri, riparatori di elettrodomestici e tv, sarti, tappezzieri e non solo.
Attività, nella stragrande maggioranza dei casi a conduzione familiare, che hanno contraddistinto la storia di molti quartieri, piazze e vie delle nostre città, diventando dei punti di riferimento che davano una identità ai luoghi in cui operavano.
Per contro, invece, i settori artigiani che stanno vivendo una fase di espansione sono quelli del benessere e dell’informatica: per esempio, si continua a registrare un costante aumento degli acconciatori, degli estetisti e dei tatuatori, così come i sistemisti, gli addetti al web marketing, i video maker e gli esperti in social media.
“Purtroppo, però – commenta la Cgia – l’aumento di queste nuove attività è insufficiente a compensare il numero delle chiusure nell’artigianato storico, con il risultato che la platea degli artigiani è, appunto, in costante diminuzione”.
E con tante saracinesche abbassate, le città sono più insicure. Le città, infatti, non sono costituite solo da piazze, monumenti, palazzi e nastri d’asfalto, ma, anche, da luoghi dove le persone si incontrano anche per fare solo due chiacchere. Luoghi che conservano l’identità di una comunità e sono uno straordinario presidio in grado di rafforzare la coesione sociale di un territorio.
Insomma, con meno botteghe e negozi di vicinato, diminuiscono i luoghi di socializzazione a dimensione d’uomo e tutto si ingrigisce, rendendo meno vivibili e più insicure le zone urbane che subiscono queste chiusure, penalizzando soprattutto gli anziani, per molti dei quali fare la spesa è diventato un grosso problema non avendo botteghe sotto casa e, spesso, non disponendo dell’auto,
Il forte aumento dell’età media della popolazione, provocato in particolar modo da un insufficiente ricambio generazionale, la feroce concorrenza esercitata dalla grande distribuzione e in questi ultimi anni anche dal commercio elettronico, il boom del costo degli affitti e delle tasse nazionali/locali hanno spinto molti artigiani a gettare la spugna.
I consumatori, inoltre, hanno cambiato il modo di fare gli acquisti. Da qualche decennio hanno sposato la cultura dell’usa e getta, preferiscono il prodotto fatto in serie e consegnato a domicilio. La calzatura, il vestito o il mobile fatte su misura sono ormai un vecchio ricordo; il prodotto realizzato a mano è stato scalzato dall’acquisto scelto sul catalogo on line o preso dallo scaffale di un grande magazzino.
Inoltre, “negli ultimi 40 anni – ha sottolineato la Cgia – c’è stata una svalutazione culturale spaventosa del lavoro manuale. L’artigianato è stato “dipinto” come un mondo residuale, destinato al declino e per riguadagnare il ruolo che gli compete ha bisogno di robusti investimenti nell’orientamento scolastico e nell’alternanza tra la scuola e il lavoro, rimettendo al centro del progetto formativo gli istituti professionali. che in passato sono stati determinanti nel favorire lo sviluppo economico del Paese, mentre oggi sono percepiti dall’opinione pubblica come scuole di serie b”.
Per alcuni, infatti, gli istituti professionali rappresentano una soluzione per parcheggiare per qualche anno i ragazzi che non hanno una grande predisposizione allo studio; mentre per altri costituiscono l’ultima chance per consentire a quegli alunni che provengono da insuccessi scolastici, maturati nei licei o nelle scuole tecniche, di conseguire un diploma di scuola media superiore.
Comunque, nonostante la crisi e i problemi generali che attanagliano l’artigianato, non sono pochi gli imprenditori di questo settore che da tempo segnalano la difficoltà a trovare personale disposto a avvicinarsi a questo mondo. In tutto il Paese si fatica a reperire giovani disposti a fare gli autisti, gli autoriparatori, i sarti, i pasticceri, i fornai, i parrucchieri, le estetiste, gli idraulici, gli elettricisti, i manutentori delle caldaie, i tornitori, i fresatori, i verniciatori e i batti-lamiera. Senza contare che nel mondo dell’edilizia è sempre più difficile reperire carpentieri, posatori e lattonieri.
Nell’ultimo decennio sono state Vercelli e Teramo le province che, entrambe con il -27,2 per cento, hanno registrato la variazione negativa più elevata d’Italia (-27,2%). Seguono Lucca (-27%), Rovigo (-26,3%) e Massa-Carrara (-25,3%).
In termini assoluti, le province che hanno registrato le maggiori “perdite” di artigiani sono state Bergamo con -8.441, Brescia con -8.735, Verona con – 8.891, Roma con -8.988, Milano con -15.991 e, in particolar modo, Torino con -18.075 artigiani.
Per quanto riguarda le regioni, infine, le flessioni più marcate in termini percentuali hanno interessato il Piemonte con il -21,4%, le Marche con il -21,6 e l’Abruzzo con il -24,3. In valore assoluto, invece, le perdite di più significative hanno interessato l’Emilia-Romagna (-37.172), il Veneto (-37.507), il Piemonte (-38.150) e, soprattutto, la Lombardia (-60.412 unità).
Tecnologie digitali, nuove formule organizzative aziendali e nuovi modelli di business: quasi il 70% delle imprese ha investito in almeno uno di questi ambiti della trasformazione digitale nel 2022 e il 41,4% ha adottato strategie di investimento integrate in grado di combinare queste tre aree. Entrambi i dati risultano superiori ai valori medi del quinquennio 2017-2021.
Per accompagnare la transizione 4.0, l’anno scorso, le imprese hanno affiancato alla dotazione tecnologica figure specializzate, cui è richiesto un portafoglio di competenze digitali da applicare ai diversi processi aziendali: si va dagli analisti e progettisti di software, agli ingegneri elettronici e in telecomunicazioni, fino agli ingegneri energetici e meccanici.
Tra le figure tecniche spiccano i programmatori, i tecnici web e quelli esperti in applicazioni, ma anche i tecnici dell’organizzazione della gestione dei fattori produttivi.
È quanto emerge dalle analisi dei dati del Sistema Informativo Excelsior di Unioncamere e Anpal, realizzate in collaborazione con il Centro Studi Tagliacarne.
Complessivamente, le imprese hanno richiesto le competenze digitali di base per la comunicazione visiva e multimediale a 3,3 milioni di profili professionali ricercati (pari al 64% del totale delle assunzioni programmate), le abilità relative all’utilizzo di linguaggi e metodi matematici e informatici per circa 2,7 milioni di posizioni (il 51,9%) e la capacità di gestione di soluzioni innovative 4.0 per 1,9 milioni (il 37,5%).
Le indagini Excelsior evidenziano una crescita diffusa delle difficoltà di reperimento, che si intensificano al crescere del grado di importanza attribuito alle competenze richieste per lo svolgimento della professione.
In particolare, si passa da una difficoltà di reperimento del 41,8% nel caso di richiesta della competenza digitale di base al 44,2% per il grado di importanza elevato; per le capacità matematico-informatiche il gap è anche più ampio (dal 42,7% al 47,7%), mentre per le competenze 4.0 la difficoltà varia dal 43,7% al 47,1%.
Per gestire le sfide tecnologiche e gestionali che le imprese devono affrontare è strategico il possesso di e-skill combinate tra loro.
Nel 2022, la domanda di e-skill mix (ossia la padronanza di almeno due delle tre competenze digitali) ha riguardato 823mila posizioni (646mila l’anno precedente): il mix di competenze digitali è richiesto ai laureati per il 49,9% delle assunzioni, in particolare nelle materie Stem come ingegneria elettronica e dell’informazione (87,5%) e scienze matematiche e fisiche ed informatiche (87,2%).
La percentuale più alta (54,1%) di richiesta di e-skill mix riguarda però i diplomati Its Academy, a dimostrazione della centralità di questi percorsi formativi nei processi di trasformazione digitale e del loro stretto collegamento con le esigenze del tessuto imprenditoriale e produttivo.
Per i profili in possesso di tali mix di competenze le difficoltà di reperimento raggiungono il 47,3% della domanda (7,1 punti percentuali in più rispetto al 2021); in particolare si concentrano nell’ambito delle professioni specialistiche legate all’implementazione dei processi di digitalizzazione, quali matematici, statistici e professioni assimilate (l’82,7% delle entrate per le quali il mix di competenza è ritenuto strategico è di difficile reperimento), ingegneri elettrotecnici (80,8%), ingegneri elettrotecnici (71,3%), analisti e progettisti di software (64,7%) e progettisti e amministratori di sistemi informatici (64,2%).
A livello territoriale, a programmare il maggior numero di assunzioni per richiesta di capacità di utilizzare linguaggi e metodi matematici e informatici con grado di importanza elevato sono le province di Milano (oltre 113mila), Torino (44mila), Bologna (23mila) e Brescia (22mila).
Per quanto riguarda le competenze digitali di base, sono molto importanti, nell’ordine, per circa 168mila lavoratori ricercati in provincia di Milano, per 126mila a Roma, per quasi 57mila a Torino e per oltre 55mila in provincia di Napoli.
Le stesse province occupano le prime quattro posizioni nella graduatoria dei territori in cui è importante il possesso di competenze 4.0, rispettivamente per 80mila assunzioni programmate in provincia di Milano, quasi 56mila in quella di Roma, oltre 30mila a Napoli e circa 29mila a Torino.
I cambiamenti climatici si confermano al primo posto tra le preoccupazioni degli italiani per l’ambiente: così si è espressa oltre la metà della popolazione di 14 anni e più (56,7%) nell’ultima indagine specifica dell’Istat. Seguono i problemi legati all’inquinamento dell’aria, avvertiti dal 50,2% del campione, mentre al terzo posto si colloca la preoccupazione per lo smaltimento e la produzione dei rifiuti (40%).
L’inquinamento delle acque (38,1% del campione), l’effetto serra e il buco nell’ozono (37,6%) sono percepiti come ulteriori fattori di rischio ambientale a livello globale.
In fondo alla graduatoria, invece, vi sono le preoccupazioni che coinvolgono una quota ristretta di popolazione (circa una persona su dieci), come l’inquinamento elettromagnetico, le conseguenze del rumore sulla salute e la rovina del paesaggio.
Quest’ultima, comunque, è una preoccupazione in crescita nelle regioni del Nord ed è percepita in maniera più forte nelle regioni a vocazione turistica, per esempio in Trentino-Alto Adige, oppure in regioni industrializzate come la Lombardia.
L’analisi dei dati in serie storica mostra in che misura le preoccupazioni legate al clima siano, nel tempo, al centro dell’interesse degli italiani di 14 anni e più. La preoccupazione per l’effetto serra, che nel 1998 coinvolgeva quasi sei persone su dieci, è scesa di circa 20 punti percentuali e interessa nel 2022 soltanto il 37,6% degli intervistati dall’Istat.
In senso inverso, il timore per i cambiamenti climatici, indicato nel 1998 dal 36% delle persone, sale al 56,7% nell’ultimo anno.
Valutando insieme i due problemi – effetto serra e cambiamenti climatici – emerge che l’attenzione della popolazione italiana per la crisi ambientale aumenta in misura decisa dal 2019 (70% di cittadini preoccupati), l’anno caratterizzato dal diffondersi in tutto il mondo dei movimenti di protesta studenteschi ispirati ai “Fridays For Future” di Greta Thunberg.
L’inquinamento dell’aria rappresenta, invece, una preoccupazione costante per un italiano su due, da oltre venti anni. L’attenzione al dissesto idrogeologico è scesa molto: dal 34,3% nel 1998 al 22,4% nel 2022. Quest’anno, però, certamente tornerà a salire in seguito alle tragedie avvenute nel nostro Paese.
Rispetto all’inquinamento del suolo, dell’acqua e alla distruzione delle foreste, il problema più sentito è l’inquinamento delle acque (interessa in maniera costante circa il 40% delle persone). La distruzione delle foreste, che nel 1998 preoccupava il 25,2% della popolazione, scende al 21,9% nel 2022. Si mantiene costante la percentuale di coloro che ritengono l’inquinamento del suolo tra le cinque preoccupazioni prioritarie in tema ambiente (da 20,3% a 21,5%).
Tra le altre preoccupazioni emerge quella legata alla produzione e allo smaltimento dei rifiuti che presenta un andamento altalenante nell’arco di venti anni; dopo una crescita registrata nel 2021 che aveva riportato l’indicatore al livello del 1998 (da 46,7% a 44,1%), nel 2022 si registra un nuovo calo di circa 4 punti percentuali
Vivere in centri dell’area metropolitana rafforza la preoccupazione per l’inquinamento dell’aria (53,8%); sempre in questi comuni è elevata la percentuale di quanti si preoccupano dello smaltimento dei rifiuti (44,6%) e infine è più alta la percentuale di quanti lamentano problemi legati all’inquinamento acustico (15%).
Nei piccoli comuni, invece, aumenta, la sensibilità rispetto all’inquinamento del suolo (24,7%) e quella relativa al dissesto idrogeologico (25,5%).
L’età rappresenta un’importante determinante della variabilità delle preoccupazioni ambientali. I giovani fino a 24 anni sono più sensibili delle persone più adulte per quanto riguarda la perdita della biodiversità (il 31,1% tra i 14 e i 24 anni contro il 19,4% degli over55), la distruzione delle foreste (26,2% contro 20,1%) e l’esaurimento delle risorse naturali (30,3% contro 22,6%).
Gli ultracinquantacinquenni si dichiarano invece più preoccupati dei giovani per il dissesto idrogeologico (25,8% contro 16,6% degli under25) e l’inquinamento del suolo (22,4% contro 18,7%).
Inoltre, la quota di cittadini che esprime preoccupazione per lo stato dell’ambiente cresce all’aumentare del titolo di studio, con differenziali relativi particolarmente elevati rispetto ai cambiamenti climatici (63,9% tra chi ha la laurea rispetto al 52,2% tra chi ha al massimo la licenza media), alla produzione e allo smaltimento dei rifiuti (48,8% rispetto al 35,2%) e all’inquinamento delle acque (41,7% contro 35,1%).
L’analisi dei comportamenti ambientali e degli stili di vita e di consumo sono di grande interesse per capire come i cittadini si rapportano all’ambiente.
Nel 2022, il 69,8% degli intervistati dall’Istat dichiara di fare abitualmente attenzione a non sprecare energia, il 67,6% a non sprecare l’acqua e il 49,6% a non adottare mai comportamenti di guida rumorosa al fine di limitare l’inquinamento acustico. Inoltre, il 35% della popolazione legge le etichette degli ingredienti e il 22,5% acquista prodotti a chilometro zero
Lettori in calo. L’anno scorso, il 39,3% degli italiani con più di sei anni hanno letto almeno un libro per motivi non strettamente scolastici o professionali. La quota si è ridotta rispetto a quanto rilevato nei due anni precedenti, quando i lettori erano rispettivamente il 41,4% (2020) e il 40,8% (2021). Dal 2000, quando la quota di lettori risultò pari al 39,1%, l’andamento è stato crescente fino a raggiungere il picco massimo nel 2010 (46,8%), per poi ridiscendere progressivamente fino ad arrivare nel 2016 allo stesso livello del 2001 (40,5%).
In questo quadro, la contrazione registrata nel 2022 porta la quota di lettori al livello più basso mai registrato in quasi venticinque anni.
Comunque, anche nel 2022 si evidenzia una rilevante differenza di genere in favore delle donne: la percentuale delle lettrici è del 44% (-1,7 punti percentuali sul 2021), quella dei lettori del 34,3% (-1,6).
La quota più rilevante di lettori (il 44,4%) è formata da lettori “deboli”, cioè quelli che dichiarano di aver letto al massimo tre libri nei 12 mesi precedenti l’intervista fatta dall’Istat. Il 39,3% può, invece, essere considerato “lettore medio”, avendo letto da 4 a 11 libri nell’ultimo anno. Infine, soltanto il 16,3% ha letto almeno 12 libri nell’ultimo anno e appartiene perciò alla fascia dei lettori “forti”.
La quota di lettori forti è più alta tra le lettrici che non tra i lettori. Inoltre, valori più elevati di lettori forti si osservano tra le persone di 60 anni e più. Al contrario, sono gli uomini a presentare più spesso un profilo di lettore debole e anche i ragazzi di 11-14 anni.
A fronte di un profilo di lettore polarizzato prevalentemente sulla lettura di pochi libri, c’è comunque da osservare come nell’arco di 22 anni si sia registrato un lieve aumento del numero di libri letti in un anno; questo numero passa, infatti, da 6,3 del 2000 a 7,4 del 2022. Parallelamente, la quota di lettori forti aumenta di 4,3 punti percentuali. Tale andamento si è registrato principalmente tra le lettrici (che leggevano in media 6,3 libri in un anno nel 2000 e arrivano a 7,9 nel 2022) e tra i lettori di 60 anni e più, passati da 7,2 libri nel 2000 a 9 nel 2022.
L’analisi per fasce di età mette in evidenza nel 2022 una quota maggiore di lettori tra i più giovani (fino a 24 anni), con punte più elevate specialmente tra gli 11 e i 14 anni (57,1%), per quanto tra i giovanissimi la lettura complessiva non superi i tre libri l’anno per un lettore su due. A partire dai 25 anni di età l’abitudine alla lettura diminuisce, sebbene tra la popolazione di 55-59 anni si osservi un andamento nuovamente crescente, che regredisce però tra la popolazione ultra-sessantaquattrenne.
In assoluto, il pubblico più affezionato alla lettura è rappresentato dalle ragazze di 11-24 anni, tra le quali circa sei su dieci hanno letto almeno un libro nell’anno. La quota di lettrici scende sotto la media nazionale tra i 45-54 anni e dopo i 60, mentre per gli uomini è sempre inferiore al valor medio nazionale a partire dai 35 anni.
A partire dal 2010 l’analisi evidenzia, per quasi tutte le fasce di età, una diminuzione della quota di lettori negli anni successivi. Puntando l’attenzione sui giovani, si assiste a una decisa contrazione di lettori tra il 2010 e il 2016. Dopo il 2010 si assiste a una diminuzione importante di lettori anche tra gli adulti di 45 anni e più. Gli anziani dai 65anni in su mostrano una crescita di lettori tra il 2010 e il 2016 e una sostanziale stabilità negli anni a seguire. Su tale componente della popolazione pesa progressivamente la presenza di generazioni sempre più istruite e in migliore condizione di salute di un tempo.
L’abitudine alla lettura è più diffusa nelle regioni del Centro-Nord: nel 2022, ha letto almeno un libro il 46,3% delle persone residenti nel Nord-Ovest, il 45,8% di quelle del Nord-Est e il 42,4% di chi vive nel Centro. Al Sud la quota di lettori è del 27,9% mentre nelle Isole la realtà è molto differenziata tra la Sicilia (24%) e la Sardegna (40%).
Considerando l’ampiezza demografica dei comuni, l’abitudine alla lettura è molto più diffusa centri delle aree metropolitane, dove nel 2022 si dichiara lettore quasi la metà degli abitanti (47,8%). La quota scende al 36,3% nei Comuni con meno di 2mila abitanti. Tale divario potrebbe spiegarsi con una maggiore presenza di librerie e biblioteche nei centri di grandi dimensioni.
Anche il livello di istruzione rappresenta un elemento discriminante per le abitudini di lettura: tra le persone con un’età pari o superiore ai 25 anni, legge libri il 68,9% dei laureati, il 43,2% dei diplomati e solo il 17,1% di chi possiede al massimo la licenza media.
Sempre l’anno scorso, il 10,2% della popolazione italiana si è recata in biblioteca almeno una volta, dato superiore rispetto al 7,4% del 2021, ma ancora distante dal 15,3% del 2019. I giovani e i giovanissimi tra 6 e 24 anni sono i frequentatori più assidui, con una quota più che doppia rispetto al resto della popolazione.
Nel 2022, la quota di persone laureate che si è recata in biblioteca è di oltre sei volte superiore rispetto a quella di chi possiede al massimo la licenza media (16,8% contro 2,6%) ed è più di due volte superiore rispetto a quella di chi ha conseguito il diploma superiore (7,5%).
Nel complesso, le attività più diffuse tra gli utenti delle biblioteche sono “prendere libri in prestito” (57,6%), “leggere o studiare” (37,2%) e “raccogliere informazioni” (22,2%).
Tuttavia, i motivi della fruizione si diversificano ampiamente in base all’età. L’attività del prendere libri in prestito è svolta con prevalenza più alta dai giovani utenti fino a 14 anni e dagli anziani di 65-74 anni (circa 7 su 10). Al contrario, si recano in biblioteca per leggere o studiare prevalentemente i giovani tra 15 e 34 anni.</p