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I libri perdono lettori

I libri perdono lettori

Lettori in calo. L’anno scorso, il 39,3% degli italiani con più di sei anni hanno letto almeno un libro per motivi non strettamente scolastici o professionali. La quota si è ridotta rispetto a quanto rilevato nei due anni precedenti, quando i lettori erano rispettivamente il 41,4% (2020) e il 40,8% (2021). Dal 2000, quando la quota di lettori risultò pari al 39,1%, l’andamento è stato crescente fino a raggiungere il picco massimo nel 2010 (46,8%), per poi ridiscendere progressivamente fino ad arrivare nel 2016 allo stesso livello del 2001 (40,5%).

In questo quadro, la contrazione registrata nel 2022 porta la quota di lettori al livello più basso mai registrato in quasi venticinque anni.

Comunque, anche nel 2022 si evidenzia una rilevante differenza di genere in favore delle donne: la percentuale delle lettrici è del 44% (-1,7 punti percentuali sul 2021), quella dei lettori del 34,3% (-1,6).

La quota più rilevante di lettori (il 44,4%) è formata da lettori “deboli”, cioè quelli che dichiarano di aver letto al massimo tre libri nei 12 mesi precedenti l’intervista fatta dall’Istat. Il 39,3% può, invece, essere considerato “lettore medio”, avendo letto da 4 a 11 libri nell’ultimo anno. Infine, soltanto il 16,3% ha letto almeno 12 libri nell’ultimo anno e appartiene perciò alla fascia dei lettori “forti”.

La quota di lettori forti è più alta tra le lettrici che non tra i lettori. Inoltre, valori più elevati di lettori forti si osservano tra le persone di 60 anni e più. Al contrario, sono gli uomini a presentare più spesso un profilo di lettore debole e anche i ragazzi di 11-14 anni.

A fronte di un profilo di lettore polarizzato prevalentemente sulla lettura di pochi libri, c’è comunque da osservare come nell’arco di 22 anni si sia registrato un lieve aumento del numero di libri letti in un anno; questo numero passa, infatti, da 6,3 del 2000 a 7,4 del 2022. Parallelamente, la quota di lettori forti aumenta di 4,3 punti percentuali. Tale andamento si è registrato principalmente tra le lettrici (che leggevano in media 6,3 libri in un anno nel 2000 e arrivano a 7,9 nel 2022) e tra i lettori di 60 anni e più, passati da 7,2 libri nel 2000 a 9 nel 2022.

L’analisi per fasce di età mette in evidenza nel 2022 una quota maggiore di lettori tra i più giovani (fino a 24 anni), con punte più elevate specialmente tra gli 11 e i 14 anni (57,1%), per quanto tra i giovanissimi la lettura complessiva non superi i tre libri l’anno per un lettore su due. A partire dai 25 anni di età l’abitudine alla lettura diminuisce, sebbene tra la popolazione di 55-59 anni si osservi un andamento nuovamente crescente, che regredisce però tra la popolazione ultra-sessantaquattrenne.

In assoluto, il pubblico più affezionato alla lettura è rappresentato dalle ragazze di 11-24 anni, tra le quali circa sei su dieci hanno letto almeno un libro nell’anno. La quota di lettrici scende sotto la media nazionale tra i 45-54 anni e dopo i 60, mentre per gli uomini è sempre inferiore al valor medio nazionale a partire dai 35 anni.

A partire dal 2010 l’analisi evidenzia, per quasi tutte le fasce di età, una diminuzione della quota di lettori negli anni successivi. Puntando l’attenzione sui giovani, si assiste a una decisa contrazione di lettori tra il 2010 e il 2016. Dopo il 2010 si assiste a una diminuzione importante di lettori anche tra gli adulti di 45 anni e più. Gli anziani dai 65anni in su mostrano una crescita di lettori tra il 2010 e il 2016 e una sostanziale stabilità negli anni a seguire. Su tale componente della popolazione pesa progressivamente la presenza di generazioni sempre più istruite e in migliore condizione di salute di un tempo.

L’abitudine alla lettura è più diffusa nelle regioni del Centro-Nord: nel 2022, ha letto almeno un libro il 46,3% delle persone residenti nel Nord-Ovest, il 45,8% di quelle del Nord-Est e il 42,4% di chi vive nel Centro. Al Sud la quota di lettori è del 27,9% mentre nelle Isole la realtà è molto differenziata tra la Sicilia (24%) e la Sardegna (40%).

Considerando l’ampiezza demografica dei comuni, l’abitudine alla lettura è molto più diffusa centri delle aree metropolitane, dove nel 2022 si dichiara lettore quasi la metà degli abitanti (47,8%). La quota scende al 36,3% nei Comuni con meno di 2mila abitanti. Tale divario potrebbe spiegarsi con una maggiore presenza di librerie e biblioteche nei centri di grandi dimensioni.

Anche il livello di istruzione rappresenta un elemento discriminante per le abitudini di lettura: tra le persone con un’età pari o superiore ai 25 anni, legge libri il 68,9% dei laureati, il 43,2% dei diplomati e solo il 17,1% di chi possiede al massimo la licenza media.

Sempre l’anno scorso, il 10,2% della popolazione italiana si è recata in biblioteca almeno una volta, dato superiore rispetto al 7,4% del 2021, ma ancora distante dal 15,3% del 2019. I giovani e i giovanissimi tra 6 e 24 anni sono i frequentatori più assidui, con una quota più che doppia rispetto al resto della popolazione.

Nel 2022, la quota di persone laureate che si è recata in biblioteca è di oltre sei volte superiore rispetto a quella di chi possiede al massimo la licenza media (16,8% contro 2,6%) ed è più di due volte superiore rispetto a quella di chi ha conseguito il diploma superiore (7,5%).

Nel complesso, le attività più diffuse tra gli utenti delle biblioteche sono “prendere libri in prestito” (57,6%), “leggere o studiare” (37,2%) e “raccogliere informazioni” (22,2%).

Tuttavia, i motivi della fruizione si diversificano ampiamente in base all’età. L’attività del prendere libri in prestito è svolta con prevalenza più alta dai giovani utenti fino a 14 anni e dagli anziani di 65-74 anni (circa 7 su 10). Al contrario, si recano in biblioteca per leggere o studiare prevalentemente i giovani tra 15 e 34 anni.</p

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Terzo settore e volontariato

Terzo settore e volontariato

Al 6 luglio scorso, in Italia, sono 111.552 gli enti che risultano iscritti al Runts (Registro unico nazionale del Terzo Settore), di cui poco meno di 69.000 sono trasmigrati, ovvero enti precedentemente iscritti ai Registri regionali del Volontariato e della Promozione sociale.

Vi sono poi più di 24.000 imprese sociali i cui dati sono stati condivisi con il Runts dalla sezione speciale del Registro delle imprese tenuto dalle Camere di commercio e, infine, compaiono quasi 19.000 “nuovi” Ets (Enti del Terzo Settore), che si sono iscritti al Runts a partire dal novembre 2021.

Di questi nuovi iscritti, una parte sono enti effettivamente nati dopo l’avvio della riforma; un’altra è rappresentata da soggetti che hanno deciso di “emergere”, ovvero che non erano mai stati iscritti ad alcun registro pubblico. Infine, una terza parte è composta da organizzazioni che si erano iscritte a qualche albo settoriale o territoriale e che hanno deciso di “fare il salto” al Registro Unico.

Dunque, dopo meno di due anni, il Runts entra in una fase di maturità e, poco alla volta, diventa una vera e propria “anagrafe” degli enti del Terzo Settore, così come definiti dal codice del Terzo Settore del 2017.

Una componente importante del Terzo Settore è costituita dalle Inp (Istituzioni non profit), il 72,1% delle quali si avvale dell’attività gratuita di 4,661 milioni di volontari (dati Istat 2021). Complessivamente, le istituzioni non profit attive in Italia nel 2021 sono 363.499 e impiegano complessivamente 870.183 dipendenti.

Anche se in calo rispetto al 2015 (-15,7%), i volontari in Italia rappresentano uno dei pilastri portanti del settore, svolgendo attività che incidono fortemente sullo sviluppo economico e sociale del Paese, sulla qualità della vita, sulle relazioni sociali e il benessere dei cittadini.

Sia in termini di istituzioni che di volontari, la presenza più rilevante si registra nel Nord Italia.

Anche per il numero di volontari rispetto alla popolazione residente (790 volontari per 10mila abitanti a livello nazionale), prevalgono nella distribuzione le regioni settentrionali, insieme a quelle centrali, con 1.165 volontari per 10mila abitanti nel Nord-Est e 887 nel Nord-Ovest.

Considerando la forma giuridica delle Inp, le unità che si avvalgono di volontari sono nella stragrande maggioranza dei casi associazioni (89,1%); mentre le fondazioni sono l’1,8% e le cooperative sociali il 2,6%.

Le istituzioni che operano grazie al contributo dei volontari e i volontari stessi si concentrano nei settori delle attività culturali e artistiche, sportive, ricreative e di socializzazione, che insieme aggregano il 65,2% delle istituzioni con volontari e il 54,5% dei volontari. Seguono i settori dell’assistenza sociale e protezione civile (con il 10% di istituzioni e il 14,7% di volontari) e quello della sanità (4,4% di istituzioni e 9,8% dei volontari). Il 6,5% dei volontari presta invece la propria attività in istituzioni non profit a carattere religioso.

In particolare, la quota di istituzioni che si avvalgono di volontari è più alta nei settori dell’ambiente (86% delle istituzioni attive nel settore), delle attività ricreative e di socializzazione (85,6%), della filantropia e promozione del volontariato (84,6%), della cooperazione e solidarietà internazionale (83,1%) e dell’assistenza sociale e protezione civile (78,3%).

I volontari impegnati nel settore non profit sono per il 57,5% uomini e il 42,5% donne.

In generale, la dimensione delle Inp che si avvalgono delle attività gratuite dei volontari è abbastanza contenuta: più della metà ha meno di dieci volontari (54,2%). L’11,4% ha dimensioni estremamente modeste, con al massimo due volontari e il 42,8% ha un numero di volontari compreso fra tre e nove. Conta invece su un numero cospicuo di volontari (50 e più) il 6,4% delle istituzioni, concentrando il 40,1% dei volontari.

Rispetto al 2015 è cresciuta l’incidenza delle Inp di piccolissime dimensioni, con uno o due volontari (11,4% nel 2021, a fronte del 7,9% nel 2015) e anche la quota dei volontari delle istituzioni di dimensioni medio-grandi (29,7% di volontari a fronte del 27,4% nel 2015).

L’86,5% delle Inp attive nel 2021 è impegnato in attività rivolte alla collettività in generale, mentre il 13,5% orienta la propria attività ed eroga servizi a categorie di persone con specifici disagi.

Considerando le diverse categorie sociali con situazioni di fragilità, vulnerabilità o disagio, nel 55,8% dei casi le Inp si occupano di disabilità fisica e/o intellettiva, nel 32,9% di persone in difficoltà economica e/o lavorativa, nel 31,2% di persone con disagio psico-sociale, nel 25,3% di persone vulnerabili, per esempio in condizione di solitudine o isolamento.

A seguire, il 24,4% delle istituzioni dedite a categorie disagiate si occupa di minori, il 17,5% di familiari di persone con disagio, il 13,2% di persone affette da patologia psichiatrica e il 12,9% si occupa di immigrati, richiedenti asilo, rifugiati, profughi, Rom, Sinti e Caminanti.

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Cultura e creatività motori dell’economia

Cultura e creatività motori dell’economia

A tre anni dallo scoppio della pandemia e in piena fase di ricostruzione e ripartenza, le industrie culturali e creative italiane risultano tra i settori strategici per facilitare la ripresa economica del Paese.

Non solo perché i numeri dell’ultimo decennio dimostrano che sono una fonte significativa di posti di lavoro e ricchezza; ma anche perché sono un motore di innovazione per l’intera economia e agiscono come un attivatore della crescita di altri settori, dal turismo alla manifattura creative-driven, ossia quella manifattura che ha saputo incorporare professionisti e competenze culturali e creative nei processi produttivi spesso orientati alla sostenibilità, traducendo la bellezza in oggetti e portando il made in Italy nel mondo.

Bellezza e cultura, quindi, sono parte del Dna italiano e sono alla base delle ricette made in Italy per la fuoriuscita dalle crisi.

In particolare, la cultura in Italia è una filiera in cui operano soggetti privati, pubblici e del terzo settore, che nel 2022 ha generato complessivamente un valore aggiunto pari a 95,5 miliardi di euro (+6,8% rispetto all’anno precedente). Inoltre, non soltanto ha recuperato gli oltre 43 mila posti di lavoro che si erano persi nel 2021, ma ha ancora incrementato del 3% l’occupazione del settore, portandola a 1.490.738 unità.

Nella filiera operano 275.318 imprese (+1,8% nel 2022 rispetto all’anno precedente) e 37.668 organizzazioni non-profit che si occupano di cultura e creatività, le quali impiegano più di 21 mila tra dipendenti, interinali ed esterni (il 2,3% del totale delle risorse umane retribuite operanti nell’intero universo del non-profit).

Complessivamente, per ogni euro di valore aggiunto prodotto dalle attività culturali e creative se ne attivano altri 1,8 in settori economici diversi, come quello turistico, dei trasporti e del made in Italy, per un valore pari a 176,4 miliardi di euro.

Complessivamente, dunque, cultura e creatività, direttamente e indirettamente, generano valore aggiunto per circa 271,9 miliardi di euro (15,9% economia nazionale).

Questi dati si trovano nella tredicesima edizione del rapporto realizzato da Fondazione Symbola e Unioncamere, con la collaborazione del Centro Studi delle Camere di Commercio Guglielmo Tagliacarne, insieme a Istituto per il Credito Sportivo, la Fondazione Fitzcarraldo e Fornasetti.

La forza della nostra economia e del made in Italy – ha commentato Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola – deve molto, in tutti i campi, alla cultura e alla bellezza, che, più che in altri Paesi, oltre ad arricchire la nostra identità e alimentare la domanda di Italia nel mondo, possono aiutarci ad affrontare le difficili sfide che abbiamo davanti”.

E Andrea Prete, presidente di Unioncamere ha aggiunto: “Il nostro sistema produttivo culturale e creativo si configura sempre più come un conglomerato di attività capace di attivare in misura consistente il resto dell’economia. Fra l’altro, la spesa complessiva sostenuta dai turisti stranieri in consumi culturali (spettacoli teatrali, concerti, folklore, visite guidate, musei, mostre) ha sfiorato i 35 miliardi di euro nel 2022, pari al 44,9% della spesa turistica complessiva”.

Dalle attività core derivano 52,7 miliardi e circa 852 mila occupati (rispettivamente +7,2% e +3,3% rispetto al 2021), mentre le attività creative driven generano la ricchezza più elevata degli ultimi tre anni (42,8 miliardi di euro, +6,4% nell’ultimo anno) e danno lavoro a 639 mila occupati (+2,5% rispetto al 2021).

In particolare, il comparto dei videogiochi e software è quello che contribuisce maggiormente alla ricchezza della filiera con 14,6 miliardi di euro di valore aggiunto (il 15,3% dell’intera filiera e +9,6% rispetto al 2021) e con un incremento di oltre 12 mila posti di lavoro (+7%). È continuata, quindi, la dinamica positiva già sperimentata negli anni precedenti, sulla scia di un mercato digitale in espansione anche nel 2022.

Le regioni maggiormente specializzate nella cultura e nella creatività sono la Lombardia e il Lazio. In particolare, la Lombardia genera il più alto valore aggiunto nell’ambito del sistema, con 26,4 miliardi di euro, pari al 27,6% della intera filiera e al 6,8% della ricchezza prodotta nella regione. In termini occupazionali, nella regione sono impiegati 353 mila addetti, incidendo per quasi un quarto sull’occupazione nazionale della filiera culturale e creativa e per il 7,2% sul totale economia.

Il Lazio, con Roma come suo principale centro turistico e culturale, contribuisce per il 15% alla filiera nazionale e il 7,6% all’intera economia regionale, con un valore aggiunto di circa 14,4 miliardi di euro; gli occupati del settore sono 197 mila, pari al 13,2% del sistema nel suo complesso e al 7,1% dell’occupazione regionale.

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Medie imprese con una marcia in più

Medie imprese con una marcia in più

In Italia, anche nei periodi di crisi, le medie imprese confermano di avere un modello dinamico e più resiliente rispetto alle grandi. E la chiave di questo successo sta nell’attenzione verso la qualità e il capitale umano, che rappresenta il fattore determinante della competitività.

Lo dimostrano, fra l’altro, il loro aumento del fatturato nel 2022 (+15%) e le prospettive di crescita, anche se più contenute, per il 2023 (+3,5%).

È quanto emerge dal nuovo rapporto sulle medie imprese industriali del nostro Paese realizzato dall’Area Studi Mediobanca, Unioncamere e dal Centro Studi Tagliacarne.

Sono state esaminate 3.660 imprese manifatturiere a controllo familiare italiano, con fatturato compreso tra 17 e 370 milioni di euro e una forza lavoro tra i 50 e i 499 addetti. Un ecosistema che nel 2021 ha realizzato vendite aggregate pari a 184,1 miliardi di euro, occupando oltre 523mila dipendenti.

Dopo i rimbalzi del fatturato del 2021 (+20,4%) e del 2022 (+15%), le medie imprese manifatturiere italiane affrontano le incertezze della congiuntura forti di una grande capacità di adattamento, che le ha rese meno sensibili agli shock rispetto al resto dell’economia.

Le aspettative per gli anni a venire sono ispirate da un ‘ottimismo temperato’: il 55% ritiene di poter crescere, ma in maniera lieve. Si tratta di un gruppo che fa da spartiacque tra un 25% di aziende ottimiste, che immaginano un futuro in incremento significativo e un 20% che, al meglio, manterrà stabili le proprie quote di mercato.

Rispetto al periodo precedente al Covid e al conflitto russo-ucraino, l’attuale contesto presenta più rischi che opportunità per il 37,7% del campione, anche perché il 28% di esse ritiene di confrontarsi con competitors meno numerosi ma più agguerriti.

Fortunatamente, per oltre un quarto delle medie imprese, negli ultimi anni è cresciuto il gradimento verso il made in Italy, che rappresenta una sorta di ‘ancora valoriale’ in un quadro dai riferimenti instabili.

Non sorprende quindi che l’obiettivo di raggiungere una dimensione ‘adeguata al contesto’ – non un gigantismo fine a sé stesso – abbia scalato l’agenda degli imprenditori. In alcuni ambiti, infatti, la capacità di attivare leve strategiche importanti come l’acquisizione di competitor internazionali o la realizzazione di investimenti digitali, è agevolata dalla dimensione.

Comunque, la volontà di continuare a investire in Italia e di migliorare la qualità appare un tratto comune a tutte le medie imprese.

Tra i ‘capitali’ strategici per lo sviluppo futuro, quello umano rappresenta, per le medie imprese, l’elemento centrale su cui focalizzare i maggiori sforzi. In una scala di rilevanza da 1 a 5, ottiene un punteggio pari a 4,6, seguito dal capitale tecnico (4,1), da quello finanziario (3,8), conoscitivo (3,6) e organizzativo (3,5).

La disponibilità di capitale umano specializzato ha una diretta relazione con la qualità dell’organizzazione e delle produzioni dell’impresa che rappresentano la ‘stella polare’ del made in Italy.

La consapevolezza di dover contare su capitale umano adeguato per migliorare la propria competitività ha favorito anche lo sviluppo di politiche specifiche per trattenere i migliori talenti. La leva economica è la più considerata e infatti il 50% adotta incrementi salariali per scongiurare il fenomeno delle dimissioni spontanee, mentre il 29% punta sui benefit aziendali e il 27% sulla flessibilità degli orari di lavoro. Solo il 13% incentiva lo smart-working.

Quanto alla doppia transizione, se per metà delle imprese è a portata di mano, per l’altra metà è un obiettivo pieno di ostacoli. A scoraggiare gli investimenti in questa direzione sono soprattutto il deficit culturale (assenza di conoscenza dei vantaggi, mancanza di interesse del management) segnalato dal 33% delle medie imprese che non investiranno in green e dal 27% di quelle che non investiranno nel digitale nel triennio 2023-2025.

Gli aspetti economici (scarsità delle risorse, problemi di accesso al credito, tassi di interesse elevati, costi delle tecnologie o delle materie prime green troppo elevati) sono un problema particolarmente sentito dal 29% delle medie imprese che non investono nel verde e dal 31% di quelle che non investono nel digitale.

Vi sono alcuni mutamenti strutturali nella governance delle imprese familiari che possono agire da facilitatori nello sviluppo di tutti i ‘capitali’ strategici, umano ma non solo. L’apertura del capitale è uno di questi.

Le grandi discontinuità che si sono “aperte” hanno aiutato a derubricare l’apertura del capitale da tabù culturale a opzione operativa: il 12,3% delle aziende ha visto crescere le proposte di ingresso nel proprio capitale da parte di fondi di private equity e il 13,9% le occasioni di operazioni di M&A. La quotazione resta ancora poco praticata dalle medie imprese prevalentemente per una ritrosia culturale: oltre il 75% la esclude o non l’ha in agenda.

Dall’indagine emerge anche che il modello produttivo italiano è fortemente radicato nel Paese: quasi il 90% delle aziende produce esclusivamente in Italia. D’altra parte, le medie imprese esportano molto (il 43% del loro fatturato) e praticano una delocalizzazione molto selettiva.

Infine, le tematiche Esg rappresentano una parte rilevante delle strategie aziendali grazie all’apprezzamento sempre maggiore da parte dei consumatori, in quanto sinonimo di cura del prodotto e di integrità delle imprese. Il 65,3% delle medie imprese considera che si tratti di un trend destinato a perdurare e una fonte di vantaggio competitivo.

Vi è comunque una quota di scettici che vi vede un costo non evitabile ma privo di ricadute positive (12,2%) o una moda temporanea, sebbene non trascurabile (8,2%).

Tuttavia, numeri alla mano, chi integra criteri Esg nelle pratiche aziendali realizza performance migliori rispetto a chi non lo fa.

 

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Estate calda per il turismo in Italia

Estate calda per il turismo in Italia

Nonostante le incertezze meteo registrate a giugno, per il turismo si prevede un’estate calda in Italia: nel trimestre estivo il sistema ricettivo del nostro Paese dovrebbe registrare 212,8 milioni di presenze, circa 12,5 milioni in più rispetto all’estate 2022 (+6,2%). A trainare la crescita, ancora una volta, i turisti stranieri (+9,6%).

È quanto emerge dall’indagine di Assoturismo-Confesercenti, realizzata dal Centro Studi Turistici di Firenze, su un campione di 1.492 imprenditori del settore nazionale.

Previsioni positive, che potrebbero anche migliorare: la sensazione di tutto il comparto è che i valori ritorneranno oltre i livelli pre-Covid, grazie alle partenze di coloro che ancora non hanno programmato il viaggio.

Per quanto riguarda gli stranieri, la ripresa è già arrivata. Il crollo scatenato dalla pandemia è stato recuperato e quest’estate ci saranno più turisti esteri rispetto al pre-Covid. Per il trimestre estivo, infatti, si prevedono oltre 101,2 milioni di presenze straniere, il 9,6% in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno e un valore più alto (+0,9%) anche di quello registrato nell’estate 2019. Gli incrementi più significativi sono stati segnalati per i flussi tedeschi –presenti in tutte le aree e tipologie di offerta, ma soprattutto nelle località dei laghi – francesi, svizzeri, olandesi, britannici, austriaci e belgi. Tra i mercati extraeuropei aumentano soprattutto i visitatori Usa: l’interesse dei turisti americani è orientato prevalentemente verso le città/centri d’arte e le aree rurali e della collina.

Comunque, anche il numero di turisti italiani continua a crescere, sebbene più lentamente. Per l’estate si prevede un aumento del 3,3%, con oltre 111,6 milioni di presenze stimate, però ancora l’1,2% in meno rispetto al 2019.

Dunque, quest’estate dovrebbe ridursi sensibilmente la differenza tra le due componenti del mercato: la quota della domanda italiana è stimata al 52,4%, contro il 47,6% della domanda estera (i valori del 2019 erano rispettivamente 52,9% e 47,1%).

Per il settore alberghiero le aspettative di crescita si attestano al +6,4%, trainate l’incremento del 10,7% di richieste giunte dai mercati esteri. Prenotazioni in crescita anche per il settore extralberghiero, con un +5,9%; ancora determinanti sono le richieste degli stranieri, stimate in aumento dell’8,4% rispetto al 2022.

Le destinazioni.

Durante il periodo estivo la crescita del mercato sarà avvertita in tutte le aree del Paese, anche se non in maniera uniforme. Infatti, l’andamento migliore è stato segnalato dagli imprenditori del Nord Ovest e del Sud/Isole, sostenuto grazie alle prenotazioni dei turisti stranieri in aumento rispettivamente del 14,8% e del 16,2%.

Valori altrettanto positivi sono stati segnalati dagli imprenditori del Centro e del Nord Est, anche questi trainati dalle richieste della domanda straniera.

I risultati migliori del periodo sono attesi per le imprese ricettive delle città d’arte/centri minori, con una crescita stimata dell’8,3%. In particolare, per l’estate, la crescita stimata degli italiani è del 5,7%, mentre le presenze straniere aumentano del 9,7%.

Cresce anche il grado di internazionalizzazione delle città, borghi e centri minori, che ospiteranno prevalentemente stranieri (64,5% del totale).

Per le località dei laghi e le aree rurali e di collina la variazione attesa è del 7,8%.

In crescita anche il movimento turistico delle località marine e montane, rispettivamente con l’incremento del 5,9% e del 6,6%.

Abbastanza positiva anche la percezione delle imprese che operano nelle località termali e ad “altro interesse”, con una crescita stimata rispettivamente del 3,5% e del 3,4%.

“Finalmente quest’estate, dopo tre anni, possiamo dire che è i visitatori stranieri sono tornati ai livelli pre-pandemia, anche se sul fronte della domanda italiana si sente l’erosione della capacità di spesa delle famiglie”, ha commentato Vittorio Messina, presidente di Assoturismo Confesercenti.

Che ha aggiunto: “Le previsioni per l’estate restano comunque assolutamente positive. Una conferma dell’attrattività della destinazione Italia e del dinamismo del comparto, che però va più che mai sostenuto. I buoni risultati non devono farci dimenticare vecchi e nuovi problemi: dalla mancanza di infrastrutture alla concorrenza sleale dell’abusivismo turistico, dalla carenza di personale all’incremento dei tassi di interesse sui mutui”.

 

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