Il 97,5% delle imprese con almeno dieci addetti utilizza connessioni in banda larga fissa o mobile.
E’ uno dei dati che emergono dalla fresca indagine dell’Istat sui comportamenti in tema di digitalizzazione e sul relativo livello, misurato secondo 12 indicatori tecnologici. La ricerca ha evidenziato, fra l’altro, la stabilità della quota di aziende (il 62,6%) che fornisce ai propri addetti dispositivi portatili, quali computer portatili, smartphone, tablet e ipad, che permettono una connessione mobile a Internet per scopi lavorativi (la quota però sale al 96% per le grandi imprese); mentre aumenta la percentuale di addetti che utilizzano un computer connesso a Internet per la propria attività (53,2% dal 49,9% del 2019), in conseguenza anche della pandemia.
L’indagine dell’Istat ha colto altri segnali di reazione alle difficoltà indotte dall’emergenza sanitaria: fra questi, il deciso aumento di imprese con sito web, che rendono disponibili informazioni sui prodotti e servizi offerti (dal 34% del 2019 al 55% del 2020) e di quelle che utilizzano servizi cloud (dal 23% del 2018 al 59% del 2020).
Tra le imprese con almeno 10 addetti connesse a Internet in banda larga fissa, la velocità massima di connessione cresce con la dimensione aziendale.
Le pmi (10-249 addetti) connesse a velocità almeno pari a 30 Mbps sono il 75%, le grandi imprese il 90,5%. L’analisi per territori, comunque, mostra che a fronte di quattro territori – Sicilia, Umbria, Basilicata, Campania e la provincia di Bolzano- con una quota superiore al 40% di imprese connesse a Internet a velocità di download pari ad almeno 100 Mbps, il Piemonte evidenzia la quota del 37,6%. Inoltre, mentre la quota di imprese connesse con almeno 30 Mbps è pari a circa il 76% nel Mezzogiorno e nella media del Nord d’Italia, in Piemonte è del 69,4% (si attesta al 73,2% nelle regioni del Centro).
Quanto al grado di digitalizzazione, è stato rilevato che circa l’82% delle imprese con almeno 10 addetti si colloca a un livello ‘basso’ o ‘molto basso’ d’adozione dell’Ict, non essendo coinvolte in più di 6 attività tra le 12 funzioni considerate; il restante 18%, invece, ne svolge invece almeno sette, posizionandosi su livelli ‘alti’ o ‘molto alti’.
In particolare, relativamente agli strumenti di intelligenza artificiale, l’indagine mostra che
l’8,6% delle imprese con almeno 10 addetti dichiara di aver analizzato, nell’anno precedente, grandi quantità di informazioni (big data) ottenute da fonti di dati proprie o di altri attraverso l’uso di tecniche, tecnologie o strumenti software.
I big data vengono analizzati dalle imprese soprattutto internamente (7,4%) mentre il 2,8% esternalizza i servizi di analisi.
I dati più analizzati internamente sono generati dai social media (46,5% delle imprese), da informazioni di geolocalizzazione derivanti da dispositivi portatili (45,3%) e da dispositivi intelligenti e sensori digitali (31,1%). L’analisi di grandi quantità di dati ha riguardato circa un quarto delle grandi imprese, mentre solo il 6,2% di quelle di minore dimensione (10-49 addetti) ha estratto dai dati informazioni rilevanti.
L’Internet delle cose (Iot) riguarda dispositivi interconnessi che raccolgono e scambiano dati e possono essere monitorati o controllati via Internet. Li utilizza il 23,1%delle imprese con almeno 10 addetti. In particolare, tra le imprese che hanno fatto ricorso a dispositivi Iot, sono più frequenti quelle che usano dispositivi, sensori intelligenti, tag Rfdi o telecamere controllate da Internet per migliorare il servizio clienti (35,7%) e per ottimizzare il consumo di energia nei locali delle imprese (32,5%).
Altro dato interessante: si riduce la quota delle imprese con almeno 10 addetti che impiegano esperti Ict (dal 16% al 12,6%), mentre si conferma la presenza di specialisti informatici tra il personale delle imprese con almeno 250 addetti (72%, dal 73,1% nel 2019). Sebbene le imprese di maggiore dimensione siano anche le più attive nell’assumere o provare ad assumere specialisti Ict, anche per loro si registra una contrazione di quelle che, nel 2019, hanno reperito o cercato di reperire personale specializzato (dal 38,4% del 2018 al 36,3%) e si attesta al 17,3% la percentuale di imprese con almeno 250 addetti che dichiarano di aver avuto difficoltà a coprire posti vacanti per addetti con competenze informatiche.
Il 63,0% delle imprese dichiara di aver utilizzato nel 2019 personale esterno per la gestione di attività legate all’Ict quali manutenzione di infrastrutture, supporto e sviluppo di software e di applicazioni web, gestione della sicurezza e della protezione dei dati.
Il 1° febbraio del 2020 il Regno Unito ha cessato di essere un paese appartenente all’Unione Europea (UE) ed è diventato un “paese terzo” non appartenente allo Spazio Economico Europeo (SEE). Tuttavia nel corso del 2020 ha usufruito di un periodo transitorio, che si è concluso il 31 dicembre 2020, nel quale ha continuato a far parte del Mercato Unico Europeo e a beneficiare del quadro normativo dell’Unione Europea.
Dal 1° gennaio 2021 al Regno Unito non verrà più applicato il Regolamento 924/2009 e smi che comporta tra l’altro l’applicazione di condizioni comuni sui pagamenti effettuati all’interno dell’Unione, pur mantenendo la propria partecipazione ai Paesi dell’Area SEPA.
Pertanto ai pagamenti SEPA da e verso il Regno Unito saranno applicate le condizioni già previste nei fogli informativi e nei contratti per i pagamenti da e verso i Paesi non appartenenti all’Unione Europea e allo Spazio Economico Europeo – “Bonifici extra SEPA” (come già accade oggi per Andorra, Isole britanniche di Guersey, Man e Jersey, Repubblica di San Marino, Svizzera e Città del Vaticano) e non più quelle relative ai pagamenti SEPA – “Bonifici Sepa”.
Per le condizioni applicate si rimanda allo specifico foglio informativo “Bonifici” disponibile sul sito www.bancadelpiemonte.it alla Sezione “Trasparenza”.
La pandemia condiziona anche il commercio mondiale di vino, comunque in misure diverse. Così, mentre per la Francia si prospetta una chiusura del 2020 con le sue esportazioni ridotte di quasi il 18%, per l’Italia il calo sarà contenuto nel 4,6% e, pertanto, il valore delle vendite dei nostri vini all’estero risulterà ancora superiore ai sei miliardi di euro.
Un quadro confortante, se si considera l’aumento delle quote di mercato guadagnate dal “vigneto Italia”; allarmante, invece, se si tiene conto dell’asimmetria di un dato generale che cela forti ribassi in diverse fasce, a partire dalle piccole imprese ad alto livello qualitativo.
In termini assoluti, la contrazione stimata del valore delle importazioni mondiali di vino sarà di oltre tre miliardi di euro rispetto al 2019, soprattutto per effetto delle mancate vendite per più di 1,7 miliardi di euro da parte del market leader, la Francia. La previsione per l’Italia, invece, mostra una diminuzione di 300 milioni di euro, grazie anche al boom delle esportazioni nel primo bimestre dell’anno (+15%), che ha attenuato il passivo annuale.
L’Italia, dunque, è stata in grado di opporre anticorpi efficaci alla crisi. Il rapporto qualità-prezzo, una più variegata diversificazione dei canali di vendita e lo scampato pericolo dei dazi aggiuntivi negli Stati Uniti hanno consentito di ridurre le perdite all’estero, ma il rovescio della medaglia è fatto di tante piccole e medie aziende del vino che, al contrario delle altre, hanno perso i propri riferimenti commerciali – in particolare dell’horeca (hotel, ristoranti, catering) – e stanno pagando uno scotto molto più rilevante della media. Infatti, se le aziende italiane maggiormente presenti sui canali di vendita della Gdo (grande distribuzione) tengono e, talvolta, incrementano; calano, invece, anche oltre il 50%, le medio-piccole orientate sui canali retail e nell’horeca.
L’Italia, in ogni caso, sta aumentando sensibilmente le quote di mercato nei suoi due principali mercati esteri, che sono gli Stati Uniti (esportazioni 2020 a 1,7 miliardi di euro) e la Germania (918 milioni). Un risultato che rappresenta una mezza vittoria se si considera il calo generale del 10,1% delle importazioni da parte degli Usa e del 7,7% della Germania. Stop significativo, però, nel Regno Unito, con i produttori italiani e francesi che perderanno rispettivamente il 12,1% e il 16,7%, a fronte di una variazione positiva di quasi il 5% della domanda. Intanto prosegue la contrazione del mercato cinese (-29%) e di quello giapponese, che vira in negativo (-15,1%) dopo l’exploit del 2019, così come del Canada (-7,7%). Giù anche la domanda australiana (-3,8%) e russa. Comunque, la performance italiana risulta generalmente meno deficitaria rispetto ai concorrenti grazie alla tenuta di alcune piazze di peso, come la Svizzera (+4,3%) e la Svezia (+2,2%).
Quanto al 2019, Eurostat ha censito che la produzione venduta di vino (inclusi spumante, porto e mosto d’uva) nell’Ue è stata di circa 16 miliardi di litri. I maggiori produttori sono stati Italia, Spagna e Francia, seguiti da Portogallo, Germania e Ungheria. Gli Stati membri hanno esportato 7,1 miliardi di litri di vino, quasi la metà in Paesi extracomunitari (3,1 miliardi di litri), principalmente nel Regno Unito (0,69 miliardi di litri) e negli Stati Uniti (0,65 miliardi di litri), in Russia (0,28 miliardi) e Cina (0,25 miliardi di litri).
L’Italia è stata di gran lunga il primo esportatore di vino nel 2019, con vendite di 1,1 miliardi di litri fuori dalla Ue, che rappresentano il 34% delle esportazioni vinicole degli Stati comunitari.
Il nostro Paese ha preceduto anche la Francia (0,8 miliardi di litri) e la Spagna (0,7 miliardi di litri). Guardando poi i flussi di importazione, emerge che gli Stati Ue hanno importato un totale di 4,8 miliardi di litri di vino nell’anno passato. E solo il 16% di questi proveniva da Paesi extra Ue, in particolare dal Cile (0,17 miliardi di litri) e dal Sud Africa (0,16 miliardi di litri).
Il Piemonte è un’eccellenza del vino italiano.
Lo conferma anche l’ultima pagella di Bibenda, la Guida ai vini italiani edita dalla Fondazione Italiana Sommelier. Infatti, Bibenda ha collocato il Piemonte al primo posto per numero di vini premiati quest’anno (142), superiore anche a quello della Toscana, (129 premi). Fra l’altro, lasciando a molta distanza, le regioni inseguitrici, guidate dalla Sicilia (41 i vini premiati con i cinque grappoli), dal Veneto, quarto con 36 e l’Alto Adige quinto con 35. Non solo: le aziende della regione Piemonte sono riuscite a portare a casa più di un premio, segno della alta qualità e continuità della loro produzione.
Torino sul podio nazionale dei brevetti, il Piemonte subito sotto, al quarto posto. L’anno scorso sono stati 271 i brevetti fatti registrare dalla provincia di Torino all’Epo (European Pantent Office) e 395 quelli dell’intera regione subalpina.
Rispetto al 2010, l’incremento è stato del 9% per Torino (i brevetti registrati erano 248) e dell’1% per il Piemonte (390). Tassi molto più bassi di diverse altre città e regioni italiane; ma, comunque, sufficienti a mantenere le stesse posizioni di dieci anni fa. Come allora, infatti, Torino è stata preceduta soltanto da Bologna (300 brevetti nel 2019) e Milano (703); il Piemonte dal Veneto (574), dall’Emilia-Romagna (741) e dalla Lombardia (1.382).
Comunque, quasi 6mila dei 40mila brevetti italiani depositati in Europa nell’ultimo decennio utilizza la tecnologia dei robot. A mostrarlo è l’analisi effettuata da Unioncamere–Dintec.Questa tecnologia, ad alto tasso di innovazione, sta progressivamente invadendo tutti i principali settori in cui tradizionalmente si esercita la capacità innovativa di imprese, enti e singoli inventori. Incluso il comparto delle tecnologie medicali, primo ambito di brevettazione italiana, le cui domande all’Epo sono cresciute del 30% rispetto a 10 anni fa.
Ciò ha contribuito molto a mantenere. anche nel 2019, l’Italia, con le sue 4.242 invenzioni pubblicate, al quarto posto della classifica europea per numero di brevetti, alle spalle di Germania, Francia e Paesi Bassi. Una posizione ragguardevole, quindi, che però potrebbe presto essere sottratta al nostro Paese dalla Svezia, che sta crescendo con ritmi ben più incalzanti di quelli italiani (circa il 2,2% contro il nostro 1% annuo).
In questi anni, l’Italia ha puntato molto sulle Ket (Key Enabling Technologies), le tecnologie che la Commissione Europea ha definito abilitanti: comprendono “sistemi di produzione e servizi, processi, automazione, robotica, sistemi di misurazione, elaborazione delle informazioni cognitive, segnali, elaborazione e controllo della produzione mediante sistemi di informazione e comunicazione ad alta velocità”.
La prima tra le sei categorie che raggruppano le Ket (biotech, fotonica, materiali avanzati, nano e micro–elettronica, nanotecnologie e manifattura avanzata) è quella dell’advanced manufacturing, le tecnologie che afferiscono al mondo della robotica in senso lato, nella quale l’Italia ha depositato quasi 6.000 domande all’Epo.
La regione battistrada in questa sfida sulle frontiere dell’automazione industriale, dei robot e dell’intelligenza artificiale è l’Emilia- Romagna (1.586 domande dal 2010 al 2019), seguita dalla Lombardia (1.519), dal Veneto (692), dal Piemonte (537) e dalla Toscana (458).
L’altra grande componente tecnologica sulla quale l’Italia sta fortemente investendo negli ultimi anni è quella green: le relative domande nazionali di brevetto europeo sono il 7% di quelle presentate nel decennio.
Quanto ai settori medicale e degli imballaggi restano, ormai da più di quindici anni, gli ambiti nei quali si è trasferita maggiormente l’innovazione italiana in Europa.
Nell’ambito medico, in particolare, l’anno scorso, si sono contate 437 domande di brevetto europeo provenienti dal nostro Paese; nel campo degli imballaggi, invece, sono state 278, mentre in terza posizione si collocano i brevetti legati ai veicoli (203).
Nel periodo considerato, inoltre, crescono soprattutto gli strumenti di misurazione prove, che recuperano ben due posizioni rispetto al 2010 e rubano il podio alla chimica organica, precipitata alla quindicesima posizione nel 2019.