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Sempre più studenti scelgono di frequentare l’Università negli atenei piemontesi

Sempre più studenti scelgono di frequentare l’Università negli atenei piemontesi

Nell’ultimo decennio, la media annuale degli studenti che decidono di iscriversi all’università in Piemonte è salita da 17mila a oltre 21mila. Tranne l’Emilia-Romagna, nessun’altra regione italiana ha conseguito un risultato altrettanto positivo. Lo rivela il Rapporto 2020 dell’Ires, l’istituto regionale di ricerche economiche e sociali, sottolineando che l’aumento degli iscritti si deve alla capacità degli atenei subalpini sia di trattenere sul territorio la domanda di formazione espressa dagli studenti residenti in Piemonte sia di attrarre studenti residenti in altre regioni, ed in particolare nel Sud (soprattutto Sicilia e Puglia) oltre che residenti all’estero.

 

Nell’anno accademico 2018/19, base del nuovo Rapporto Ires, il numero degli studenti universitari negli atenei del Piemonte è ulteriormente aumentato, arrivando a toccare i 122mila iscritti, un dato decisamente superiore a quello che caratterizzava la regione dieci anni fa.
In particolare, l’Università di Torino ha contato oltre 76mila iscritti (79.000 quest’anno), il Politecnico oltre 32mila, (35.700 nel 2020), l’Università del Piemonte Orientale (Upo) poco meno di 14mila, mentre sono risultati 431 gli iscritti all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Il gruppo disciplinare con il maggior numero di studenti nel 2018/19 è quello di Ingegneria, con quasi 27mila iscritti (il 22% del totale). Seguono il gruppo economico-statistico, con quasi 15mila iscritti (il 12%), il gruppo politico-sociale con quasi 13mila e quello medico con oltre 10mila.

 

Su 100 iscritti all’università in Piemonte, le studentesse sono 53 (il dato è lievemente inferiore a quello medio nazionale, a causa della consistente presenza di iscritti nei corsi di ingegneria, gruppo disciplinare a tradizionale prevalenza maschile). Gli studenti con cittadinanza straniera iscritti agli atenei del Piemonte sono risultati oltre 10mila: a Scienze Gastronomiche sono il 29% del totale, al Politecnico il 16%, all’Upo il 7% e all’Università di Torino il 6%. Rumeni, cinesi e albanesi sono i più numerosi.

 

Nel 2018/19 gli studenti iscritti ai corsi Afam (Alta formazione artistica, musicale e coreutica) di tipo accademico in Piemonte sono poco meno di 5.600, di cui 2.650 circa nelle tre accademie di belle arti, oltre 1.300 nei quattro conservatori musicali e 1.600 nei due istituti torinesi focalizzati sul design. Sono oltre 1.200 gli iscritti agli ITS, in continuo aumento.

 

Nel Rapporto Ires si legge che i laureati rappresentano il 30% della popolazione piemontese della classe di 30-34 anni. Nonostante il dato sia ancora lontano dall’obiettivo europeo del 40%, l’Ires evidenzia i grandi progressi compiuti, ricordando che ancora nel 2004 il dato era del 15% e che il ritardo regionale, come quello italiano, si spiega con la presenza decisamente contenuta di popolazione in possesso di titoli di terzo livello, ovvero dei corsi brevi post diploma (1-2 anni).

 

Gli atenei del Piemonte risultano molto attrattivi nei confronti di studenti provenienti da fuori regione: in particolare, al Politecnico risultano il 52% degli iscritti e all’Università di Torino il 22%. Arriva dal Sud quasi il 20% dei laureati in Piemonte, il 4% dal Centro, il 5% dall’estero.

I gruppi disciplinari che attraggono più studenti sono Ingegneria, Architettura e il gruppo Psicologico.

 

Tra le caratteristiche che influenzano la mobilità c’è il background socioculturale della famiglia di origine: ha almeno un genitore laureato il 30% di chi proviene da una regione del Nord, mentre la quota sale al 36% per chi proviene dal Sud, il 48% dal Centro e al 56% per chi proviene dall’estero. Sul totale dei laureati negli atenei piemontesi, il 65% rimane a lavorare in Piemonte dopo la laurea: tra i laureati originari del Piemonte, resta in regione quasi l’80%; tra quanti provengono dal Sud, si ferma quasi il 60% mentre circa il 12% torna a lavorare in Sud Italia e il 20% si trasferisce in un’altra regione del Nord, soprattutto in Lombardia.

 

Dopo un anno dalla laurea magistrale, lavora il 69%. I tassi di occupazione più elevati si rilevano nel gruppo disciplinare chimico-farmaceutico (89%), scientifico e ingegneria (88%). Le difficoltà maggiori emergono invece tra i laureati nei gruppi letterario, linguistico e politico sociale, soprattutto per i redditi bassi percepiti e l’elevata percentuale di contratti non standard. Tra i laureati a ciclo unico in medicina, dopo cinque anni dalla laurea il 62% è ancora impegnato con la specializzazione. I farmacisti mostrano la percentuale più elevata di contratti a tempo indeterminato. I laureati in Giurisprudenza sono meno soddisfatti dell’efficacia della laurea nel lavoro svolto: il 40% fa l’avvocato, gli altri sono occupati come esperti legali in aziende, periti, addetti alle risorse umane o alla segreteria.

Svolta green nei comportamenti degli italiani

Svolta green nei comportamenti degli italiani

La pandemia spinge la svolta green nei comportamenti degli italiani: dall’acquisto di prodotti a minor impatto ambientale al taglio degli sprechi, dall’interesse per le energie rinnovabili al riciclo, dalla sharing economy alla mobilità più sostenibile, sono molti i segnali che indicano una crescente attenzione alla riduzione del consumo delle risorse del pianeta. Lo ha rilevato un’indagine della Coldiretti, secondo la quale il 59% degli italiani ritiene che siano necessari interventi radicali e urgentissimi sullo stile di vita, tanto che il 72% ha risposto che sarebbe disposto a ridurre gli spostamenti in auto, scooter e motocicletta e l’82% preferisce prodotti Made in Italy per sostenere l’economia, l’occupazione e valorizzare le risorse nazionali.

 

L’Italia, peraltro, può contare sull’agricoltura più green d’Europa, con 305 specialità a indicazione geografica riconosciute a livello comunitario, 524 vini Dop/Igp, 5.155 prodotti tradizionali regionali censiti lungo la Penisola, la leadership nel biologico con oltre 60mila aziende agricole biologiche, la più grande rete mondiale di mercati di agricoltori e fattorie con Campagna Amica e 24mila strutture agrituristiche.

 

L’Italia è l’unico Paese al mondo che può contare su un’unica rete organizzata di farmers market che mette a disposizione delle famiglie circa 1.200 mercati contadini a livello nazionale, sia all’aperto che al chiuso, con una varietà di prodotti che vanno dalla frutta alla verdura di stagione, al pesce, alla carne, all’olio e al vino, al pane e alla pizza, ai formaggi fino ai fiori, per una spesa annua che prima dell’emergenza Covid-19 ha raggiunto i 2,5 miliardi di euro. Nei mercati dei contadini è possibile anche trovare specialità del passato a rischio di estinzione, che sono state salvate grazie all’importante azione di recupero degli agricoltori e che non trovano spazi nei normali canali di vendita dove prevalgono rigidi criteri dettati dalla necessità di standardizzazione e di grandi quantità offerte.

 

L’alta qualità dei prodotti più freschi, saporiti e genuini è la principale ragione di acquisto diretto dall’agricoltore per il 71% degli italiani, seguita dalle garanzie di sicurezza e dalla ricerca di prodotti locali che salgono sul podio delle motivazioni seguite dalla convenienza economica. Sostenendolo, la Coldiretti evidenzia che i prodotti nazionali, fra l’altro, sono in alternativa a quelli che devono percorrere lunghe distanze, con conseguenti emissioni in atmosfera dovute alla combustione di benzina e gasolio. Si calcola, per esempio, che per arrivare sulle tavole italiane un chilo di ciliegie cilene deve percorrere quasi 12mila chilometri con un consumo di 6,9 chili di petrolio e l’emissione di 21,6 chili di anidride carbonica, mentre un chilo di mirtilli argentini deve volare per più di 11mila chilometri con un consumo di 6,4 kg di petrolio che liberano 20,1 chili di anidride carbonica.

 

Non solo. Le vendite dirette degli agricoltori italiani garantiscono lavoro e futuro a oltre 20mila persone e i mercati dei contadini, oltre a essere luogo di acquisto, si rivelano anche occasioni di educazione e cultura e sono un aiuto concreto per contrastare la tendenza allo spopolamento dei centri dove chiudono negozi e botteghe, con evidenti effetti negativi legati alla taglio dei servizi di prossimità e all’indebolimento del sistema relazionale, dell’intelaiatura sociale e, spesso, persino della sicurezza.

 

“Acquistare prodotti a chilometri zero è un segnale di attenzione al proprio territorio, alla tutela dell’ambiente e del paesaggio che ci circonda, ma anche un sostegno all’economia e all’occupazione locale in un momento di difficoltà” ha commentato il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini.

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Anche in Italia si paga sempre di più con la moneta elettronica.

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A prescindere dagli obiettivi e dalle relative iniziative del Governo, in Italia si sta riducendo l’uso del contante mentre crescono progressivamente i pagamenti cashless, confermando il 2020 quale anno di concreta rottura con il passato. A fare da turbo è stato il lockdown, che ha incentivato l’uso delle carte, di internet e del mobile banking per i pagamenti, non solo per l’e-commerce, che, fra l’altro, ha avuto una forte accelerazione. Naturalmente, al fenomeno ha contribuito e contribuisce il costante ampliamento e rinnovamento della gamma di offerta di prodotti e servizi di pagamento elettronici.

 

Come rilevato dall’Osservatorio Carte di credito e digital payements curato da Assofin, Nomisma e Ipsos, con il sostegno di Crif, nel 2019 il numero dei pagamenti effettuati con strumenti diversi dal contante a livello nazionale è cresciuto del 7%. E il numero di carte di pagamento in circolazione è aumentato del 3,6%, per un valore del transato salito dell’11,3%. Questo trend evolutivo può essere anche collegato alla diffusione delle carte contactless, che rendono molto più familiare, veloce e sicuro dal punto di vista sanitario l’utilizzo della carta per i pagamenti, grazie alle nuove tecnologie.

 

Carte di credito
Nel 2019, le carte di credito attive in circolazione in Italia sono 15.4 milioni, contro i 57.2 milioni di carte di debito. La gran parte delle carte appartiene alla categoria delle carte familiari o personali , solo il 7,6% sono carte aziendali. Considerando il numero di transazioni effettuate con carte di credito si nota un percorso di crescita – è stata superata la soglia di 1,2 milioni – portando i volumi di queste transazioni al livello più alto della serie storica osservata, con un tasso di crescita del 15,5% rispetto all’anno precedente. Il valore delle transazioni effettuate è risultato di oltre 87 miliardi. E’ diminuito leggermente, però, il valore medio delle transazioni effettuate con carta di credito, passato da 76 euro a 72 euro, a conferma di un utilizzo più diffuso anche per acquisti di medio-basso valore.

 

Carte di debito
Nel 2019 si riconferma l’elevato utilizzo di carte di debito su Pos, reso evidente anche dal progressivo aumento del numero di operazioni effettuate. Gli importi complessivi delle transazioni nel 2019 superano i 130 miliardi di euro, con un incremento del 6,7% rispetto al 2018. In termini di numero medio di transazioni annue con carta di debito non si registrano variazioni significative nel corso dell’ultimo anno, ma se si osserva la dinamica di lungo periodo, il valore medio subisce una variazione consistente, superiore al 27%. Il numero medio di transazioni annue si attesta invece a 43 conto le 40 del 2018.

 

Carte prepagate

L’anno passato ha confermato l’ampio utilizzo delle carte prepagate, riprendendo il trend di crescita (+5%) che si era interrotto nel 2018. A ciò si accosta anche una crescita consistente del numero di operazioni, che aumentano del 31,2%, dando origine a un flusso transato di oltre 36 miliardi di euro (+23,1% sul 2018). Si riduce il valore medio per operazione (38 euro) e cresce in modo importante il numero medio di transazioni per carta (34) con una crescita del 24,7% rispetto all’anno prima.

 

 

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Ultrasettantacinquenni, sempre più vitali, sani e sportivi.

Ultrasettantacinquenni, sempre più vitali, sani e sportivi.

In Piemonte sono quasi 600.000, un mercato rilevante per l’industria turistica, del benessere, del risparmio e ovviamente della salute.

 

Gli ultrasettantacinquenni in Piemonte sono oltre 590.000 (al primo giorno del 2020) e sempre di più si sentono ancora vitali, se non vigorosi.
In Piemonte costituiscono il 13,6% della popolazione, in tutto il Paese l’11,7% oltrepassando i sette milioni (donne nel 60% dei casi).

 

Spesso sono nonni, ma diversi da quelli del passato: più sani, più sportivi, più impegnati, più attivi anche nel lavoro e, fra l’altro, mediamente più benestanti dei loro predecessori.
Oggi, infatti, questa fascia di popolazione rappresenta un mercato rilevante e molto considerato dall’industria turistica, da quella del benessere, oltre che da quella del risparmio e, naturalmente, della salute.

 

In Piemonte gli oltre 590.000 over 75 si possono suddividere in 6 classi diverse: 75-79 anni è la più numerosa seguita da quella di età tra gli 80 e gli 84 diminuendo in quelle successive (85-89, 90-94 e 95-99 anni) fino ad arrivare ai centenari e ultracentenari che, all’inizio di gennaio, erano precisamente 1.096, la metà circa abitanti nella provincia di Torino.

 

A fronte delle sei classi di over 75, il Piemonte ne contrapponeva, all’inizio dell’anno, altrettante di under 30, formate complessivamente da quasi 1.133 milioni di individui, pari al 26,1%, quindi poco meno del doppio.

 

Nella nostra regione, la maxi-fascia più consistente della popolazione è costituita da persone con età compresa tra i 45 e i 59 anni, che costituisce il 23.9% dei residenti, quota pari a poco più di 1.038 milioni di individui.

 

Tornando agli anziani, l’Istat ha precisato che, in Italia, l’84% dei centenari è donna e che, all’inizio di gennaio, erano 1.112 quelli che avevano già spento più di 105 candeline.
La piramide delle età mostra chiaramente la prevalente anzianità della popolazione residente in Italia: per 100 giovani tra 0 e 14 anni ci sono 173 persone che hanno 65 anni e più.

 

Il nostro è un Paese con forti legami intergenerazionali, l’Istat sottolinea che se le famiglie sono diventate sempre più strette e lunghe e gli anziani vivono sempre più spesso soli.
Questo, però, non vuol dire che essi si trovino in una situazione di isolamento sociale.
Le vite delle famiglie sono organizzate in modo tale che, almeno un figlio, viva nello stesso comune dei genitori e l’abitudine, per quasi il 60% degli anziani, è quella di vedere i figli quotidianamente.

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