In base ai dati Istat, nel 2020, in Italia, il numero dei lettori di libri è aumentato leggermente rispetto al 2019, certamente anche per via del lockdown. Le persone di età superiore ai sei anni che leggono almeno un libro all’anno (a prescindere da studio o lavoro) sono risultati il 41,4%, mentre nel 2019 erano il 40%. La crescita riguarda in particolare le donne fra i 25 e i 34 anni (+4,7%). E se le donne tendono a leggere più degli uomini (nel 2019 la percentuale delle lettrici è stata del 44,3% e quella dei lettori del 35,5%), i giovani leggono decisamente più degli adulti; infatti,nella fascia di età compresa fra i 6 e i 24 anni i lettori sono il 53,7%.
Venendo alla produzione libraria, secondo le rilevazioni Istat, nel 2019 sono stati pubblicati in media 237 libri al giorno, di cui 58,4% novità e 8,5% nuove edizioni. Prende piede la lettura digitale, ma resta il cartaceo a farla da padrone con il 77,2% dei lettori che legge solo libri cartacei, a fronte del 7,9% che legge solo e-book o libri on line.
Se si considerano i canali di commercializzazione utilizzati dagli editori, al primo posto ci sono gli store on-line italiani (59,9%) e le librerie indipendenti (59,3%). Le librerie facenti parte di catene sono di contro il canale più utilizzato da grandi e medi editori (82,9% grandi, 70,7% medi, sul 36% del totale), mentre la vendita diretta e quella on-line sono invece i canali più usati dai micro-editori (55,6%).
Stando all’elaborazione di Cribis, su un totale di 4.661 librerie, la regione dove se ne contano di più è la Lombardia (13%), seguita dal Lazio (12,3%) e dalla Campania (9%). Subito dopo ci sono Emilia-Romagna (8%), Toscana (7,8%), Sicilia (7,6%) e Piemonte 7,5% (la quota della Liguria è del 3,2% e dello 0,3% quella valdostana).
Le librerie italiane sono spesso in mano a imprese individuali (56,8%) e società di persone (23,9%), danno lavoro a diverse migliaia di persone. Sfortunatamente, l’emergenza sanitaria ha portato a una diminuzione dei dipendenti tra il 2019 e il 2020, passati da 6.217 a 5.867.
Il 2020 ha rappresentato per le librerie un anno complesso, come per quasi tutti gli altri settori. In attesa dei dati ufficiali sul fatturato, che necessariamente risentirà delle chiusure e delle restrizioni imposte per il contenimento dei contagi, è bene ricordare che nel 2019 il fatturato aveva segnato il segno più: crescendo da 1,100 miliardi di euro nel 2018 a 1,113 miliardi.
Nel 2020 tante librerie si sono attrezzate per la vendita onlinee la consegna a domicilio. L’emergenza Covid, infatti, ha sottolineato quanto la digitalizzazione e l’innovazione possano fare la differenza in situazioni di crisi. Ed è proprio quella la grande sfida delle librerie, dal momento che a oggi presentano una bassa attitudine alla digitalizzazione (75,43% dei casi) e una ridotta propensione all’innovazione (47,58% del totale).
“C’è ancora molto da fare dunque su questo fronte – ha commentato Massimiliano Solari, direttore generale Cribisi – non resta che accelerare i processi di rinnovamento, pur mantenendo un rapporto privilegiato e di fiducia coi lettori perché anche e soprattutto nei periodi complicati il ruolo di presidio culturale svolto dalle librerie è fondamentale e imprescindibile”.
Durante l’epidemia di Covid, Banca del Piemonte ha voluto offrire ai suoi clienti, ma non solo piccoli attimi di distrazione e l’ha fatto proprio attraverso la lettura.
Nell’aprile dello scorso anno, infatti, il romanzo “Lo sguardo oltre l’orizzonte” il romanzo che Alessandro Perissinotto ha scritto in occasione dei primi cento anni della Banca è stato pubblicato a puntate attraverso l’iniziativa #iorestoacasaeleggo.
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Parmigiano Reggiano, Gorgonzola, Caciocavallo, Provolone, Ricotta, Mozzarella e Pecorino sono solo alcuni dei formaggi italiani più amati all’estero e che, quest’anno, stanno spopolando sui mercati internazionali. Nei primi cinque mesi, fra l’altro, le esportazioni verso gli Stati Uniti sono ammontate a circa 13.635 tonnellate, con un balzo di oltre il 120% nel solo maggio. “Un’accelerazione che posiziona l’Italia al primo posto tra gli esportatori di formaggio negli Usa” secondo l’ultima indagine effettuata da un’autorevole società di consulenza e servizi per il settore lattiero-caseario.
Ma quello statunitense non è l’unico mercato estero a far registrare un’impennata delle importazioni di formaggi italiani, tra i quali figurano diversi piemontesi particolarmente apprezzati per la loro specifica qualità, quali il Castelmagno, il Bra, il Murazzano, la Raschera, il Taleggio, la Robiola di Roccaverano e le diverse Tome. Infatti, sempre da gennaio a maggio, l’export verso Australia e Canada ha fatto registrare un incremento appena al di sotto del 30% sullo stesso periodo del 2019. In particolare, si è raggiunto il miglior risultato dal 2016 sul mercato canadese, con 2.627 tonnellate esportate (+27,6% rispetto allo stesso periodo del 2020).
A proposito dell’impennata dell’export in Canada, come spiegato dal presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti, è stata stimolata dal Ceta, l’accordo economico e commerciale tra Unione Europea e Canada. “Il Ceta è vantaggioso per l’agricoltura italiana” ha detto Giansanti, sottolineando che “gli accordi commerciali sottoscritti dalla UE sono, in generale, un valido strumento per supportare la crescita delle esportazioni agroalimentari italiane, anche per la tutela assicurata alle indicazioni geografiche. Prima del Ceta, per esempio, le denominazioni Prosciutto di Parma e Prosciutto San Daniele non potevano essere utilizzate sul mercato canadese”.
Proprio questo nuovo accordo evoca il fenomeno dell’”italian sounding”, molto preoccupante: i nostri prodotti sono conosciuti in tutto il mondo, simbolo di qualità a partire dalle materie prime e per questo spesso vengono “contraffatti” o si utilizza la nostra eredità gastronomica per vendere i prodotti senza alcun legame con il nostro Paese, ingannando i consumatori e provocando danni alla nostra economia, ai produttori originali oltre che alla reputazione del Made in Italy.
A taroccare il cibo italiano – evidenzia la Coldiretti – sono soprattutto i Paesi emergenti e i più ricchi, dalla Cina all’Australia, dal Sud America agli Stati Uniti.
Negli Usa – ha denunciato la Coldiretti – il 99% dei formaggi di tipo italiano sono “tarocchi”, nonostante il nome richiami esplicitamente le specialità casearie più note del Belpaese. E sul mercato dell’italian sounding si è buttata anche la Russia, dove l’embargo ai prodotti italiani per il braccio di ferro con l’Unione europea ha favorito la nascita e la proliferazione di brutte copie locali del Made in Italy.
Fra le brutte copie dei prodotti caseari italiani nel mondo, in cima alla classifica c’è la mozzarella, seguita dal Parmesan, dal provolone, dalla ricotta e dal Romano, realizzato però senza latte di pecora. “La pretesa di chiamare con lo stesso nome prodotti profondamente diversi è inaccettabile, secondo la Coldiretti, anche perchè costituisce concorrenza sleale. E Confagricoltura ha invocato un salto di qualità della politica commerciale della UE non solo nell’ottica della sostenibilità ambientale e della protezione delle risorse naturali, ma anche con l’inserimento della clausola di reciprocità negli accordi con i Paesi terzi. In sostanza, il mercato unico può essere aperto soltanto ai prodotti ottenuti con regole compatibili con quelle europee in materia di sicurezza alimentare, diritti dei lavoratori, sostenibilità ambientale, benessere degli animali e, per quanto riguarda la certificazione ambientale dei prodotti, il presidente di Confagricoltura ha aggiunto che bisogna “cominciare a lavorare per il varo di un sistema di certificazione ambientale dei prodotti agricoli: per il Made in Italy sarebbe un riconoscimento aggiuntivo, oltre a quello consolidato e indiscutibile della qualità, per conquistare nuove posizioni sul mercato mondiale”.
Tornando ai numeri, va ricordato che nel primo quadrimestre di quest’anno l’Istat ha censito un balzo del 7,5% dell’export di formaggi italiani, per un valore di oltre un miliardo di euro, facendo segnare il record storico. Circa i 2/3 delle esportazioni sono dirette all’interno dell’Unione Europea, dove si è verificato un aumento dell’8,8% mentre gli Stati Uniti sono il principale mercato di sbocco fuori dai confini comunitari con il balzo del 12%. Un risultato favorito dall’entrata in vigore, l’11 marzo 2021, dell’accordo tra il presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen e il presidente Usa, Joe Biden, sulla sospensione di tutte le tariffe relative alle controversie Airbus-Boeing, fra l’altro con l’eliminazione dei dazi aggiuntivi del 25% sulle esportazioni dei grandi formaggi italiani in Usa.
Il Sole 24 Ore ha pubblicato oggi le riflessioni di Camillo Venesio, Vicepresidente Abi e nostro Amministratore Delegato e Direttore Generale, sull’importanza di avere un sistema bancario in Italia costituito da diverse realtà oltre ai grandi gruppi.
“Perché è importante che il sistema bancario sia vario e articolato”.
Sprint delle auto elettriche in Europa. Nel secondo trimestre di quest’anno, le immatricolazioni di vetture a ricarica elettrica hanno continuato a crescere nell’Unione Europea. La quota di mercato dei veicoli elettrici a batteria è più che raddoppiata: dal 3,5% nel secondo trimestre del 2020 al 7,5% di quest’anno, mentre le ibride plug-in hanno rappresentato l’8,4% di tutte le vendite del periodo. Anche la domanda di auto ibride è fortemente aumentata dall’inizio di aprile alla fine di giugno, rappresentando il 19,3% delle immatricolazioni di auto nell’UE. Contestualmente si è ridotta la quota di mercato dei carburanti tradizionali (benzina e gasolio), che insieme rappresentano il 62,2% delle auto nuove vendute. In particolare, il diesel detiene ora una quota di mercato del 20,4%, in calo dal 29,4% del secondo trimestre del 2020 e, analogamente, la quota di mercato delle auto a benzina si è contratta dal 51,9% di aprile a giugno 2020 al 41,8% quest’anno, nonostante gli aumenti della domanda nella maggior parte dei mercati dell’UE.
Nel secondo trimestre di quest’anno, le immatricolazioni di veicoli elettrici a batteria (BEV) sono aumentate del 231,6%, risultando 210.298. Questo aumento è stato aiutato da guadagni sostanziali in tutti e quattro i maggiori mercati, in particolare in Spagna (+372,7%) e Germania (+357%).
I veicoli elettrici ibridi plug-in (PHEV) hanno avuto un secondo trimestre del 2021 ancora più impressionante, con immatricolazioni che sono balzate del 255,8% a 235.730 unità.L’Italia è stata di nuovo tra i mercati in più forte crescita, con 21.647 auto plug-in immatricolate da aprile a giugno, con un aumento su base annua del 659,3%. Anche gli altri tre principali mercati dell’UE hanno registrato guadagni impressionanti nel segmento PHEV: Spagna (+430,3%), Francia (+276,4%) e Germania (+269,9%).
Con 541.162 unità vendute nell’UE durante il secondo trimestre dell’anno, i veicoli elettrici ibridi (HEV) sono rimasti la più grande categoria di auto a propulsione alternativa in termini di volume. Tutti i mercati dell’UE hanno registrato guadagni percentuali di due o anche tre cifre durante questo periodo, compresi i quattro principali. Di conseguenza, le immatricolazioni ibride sono più che triplicate da aprile a giugno, con un aumento del 213,5% rispetto a un anno fa.
La domanda di veicoli a gas naturale (GNV) nell’Unione Europea è aumentata del 41,8% a 13.497 unità nel secondo trimestre, sostenuta principalmente dalla notevole crescita in Italia (+94%), che da sola rappresenta il 75% di tutte le vendite dell’UE di questo segmento e
le immatricolazioni di auto alimentate a GPL sono più che raddoppiate (+134,1%) per un totale di 59.363 unità, sostenute da una buona performance in Italia (+89,5%) e Francia (+266%), i due maggiori mercati europei per le auto a GPL.
Comunque, secondo una nuova ricerca dell’Associazione europea dei produttori di automobili (Acea), le forti variazioni nazionali nelle vendite di auto elettriche nella Ue sono chiaramente correlate al tenore di vita di un Paese.
Le auto elettriche a batteria e ibride plug-in hanno rappresentato il 10,5% di tutte le auto nuove vendute nell’Unione europea lo scorso anno; tuttavia, dieci Stati membri avevano ancora una quota di mercato inferiore al 3%. L’analisi dimostra che l’adozione da parte dei consumatori di auto elettriche è direttamente collegata al Pil pro capite nazionale, indicando che l’accessibilità economica rimane un problema importante.
“Come nel caso della distribuzione delle infrastrutture di ricarica, c’è una chiara divisione nell’accessibilità delle auto elettriche tra l’Europa centro-orientale e l’Europa occidentale, nonché un pronunciato divario Nord-Sud” ha spiegato Eric-Mark Huitema, direttore generale dell’Acea.
I Paesi con una quota di mercato totale delle auto elettriche inferiore al 3% hanno un Pil medio inferiore a 17.000 euro. È il caso, peresempio, dei Paesi dell’Europa centrale e orientale e della Grecia. Inoltre, i cinque Paesi con la più bassa diffusione sul mercato di auto elettriche hanno anche pochissimi punti di ricarica, inferiori all’1% del totale Ue.
Dall’altra parte, una quota di mercato superiore al 15% per le auto elettriche si trova solo nei Paesi più ricchi del Nord Europa con un Pil medio di oltre 46.000 euro. Quasi tre quarti di tutte le vendite di auto elettriche dell’Ue sono concentrate in quattro Paesi dell’Europa occidentale con alcuni dei Pil più alti: Svezia, Paesi Bassi, Finlandia e Danimarca. Il restante quarto delle vendite è distribuito in 23 Stati membri.
Come mostrano i recenti dati dell’Agenzia europea dell’ambiente, i pesanti investimenti dell’industria automobilistica in veicoli a basse emissioni stanno dando i loro frutti. Con le vendite di auto elettriche triplicate tra il 2019 e il 2020, le emissioni medie di CO2 sono diminuite del 12% lo scorso anno (record). Il direttore generale dell’Acea ha spiegato: “Per continuare questo progresso sulla strada dello zero, la Commissione europea deve garantire urgentemente che ci siano tutte le giuste condizioni e che nessun Paese o cittadino venga lasciato indietro. I veicoli a zero emissioni devono essere accessibili e convenienti per tutti”. Le case automobilistiche europee chiedono, quindi, adeguati incentivi a lungo termine per stimolare le vendite di tali veicoli e obiettivi infrastrutturali vincolanti per ciascuno Stato membro dell’Europa unita.
Ecco i cinque Paesi della Ue con la quota più alta di auto elettriche (tra parentesi il loro Pil pro capite annuo medio): Svezia: 32,2% (45.610 euro), Paesi Bassi: 25% (45.790 euro), Finlandia 18,1% (42.940 euro), Danimarca: 16,4% (53,470 euro), Germania 13,5% (40.070) e i cinque Stati membri con la quota più bassa: Cipro: 0,5% (23.580 euro), Lituania: 1,1% (17.460), Estonia: 1,8 % (20.440 euro), Croazia: 1,9% (12.130 euro), Polonia: 1,9% (13.600 euro).
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Il “Bello e Ben Fatto” italiano vale 135 miliardi di euro all’anno, rappresenta una parte consistente delle esportazioni complessive dell’Italia ed è trasversale a tutti i principali comparti del Made in Italy, seppure in maniera più marcata nei settori afferenti alle tre “F” di Fashion, Food and Furniture. È quanto emerge dall’analisi del rapporto Esportare la Dolce Vita, realizzato dal Centro Studi Confindustria.
Le eccellenze italiane si dirigono prevalentemente verso i mercati avanzati, che insieme ne assorbono per circa 114 miliardi di euro.
Supera invece i 20 miliardi di euro il valore del quantitativo di eccellenze esportato verso i Paesi emergenti, che, per il loro dinamismo offrono margini di crescita maggiori, però di rischi più elevati.
Comunque, secondo il rapporto del Centro Studi di Confindustria, c’è un margine potenziale di incremento delle esportazioni del “Bello e Ben Fatto” pari a 82 miliardi di euro rispetto alle posizioni fin qui acquisite. Il potenziale si ripartisce per oltre tre quarti nei Paesi avanzati (62 miliardi di euro) e per la restante parte negli emergenti (20 miliardi di euro).
I Paesi avanzati domandano con maggiore intensità i beni del Bello e Ben Fatto. Gli Stati Uniti sono il mercato con il più alto potenziale in termini assoluti, con 15,5 miliardi di euro di possibile export aggiuntivo. Ma il potenziale è elevato anche per Francia, Germania e Regno Unito, che, complessivamente, valgono un potenziale di 13,7 miliardi di euro.
L’Italia presidia bene i mercati più dinamici: il primo Paese per potenziale è la Cina con 3,9 miliardi di euro di export aggiuntivo possibile. Nel dettaglio, a fronte di un potenziale totale di 8,6 miliardi, l’export già realizzato è il 60% circa (4,7 miliardi), mentre è ancora sfruttabile il 40% del potenziale di crescita del Bello e Ben Fatto. Fra l’altro, tra i paesi emergenti, la Cina è quello che offre maggiori margini di miglioramento anche nel medio-lungo termine. Le stime sullo stock attuale della classe media benestante e sull’aumento dei nuovi ricchi al 2025 e 2030, mostrano che i mercati asiatici sono gli assoluti protagonisti tra i mercati emergenti. La Cina si colloca al primo posto sia per dimensione attuale della classe benestante (265,6 milioni) che per la crescita nel prossimo quinquennio (70,2 milioni).
La Cina, tuttavia, si conferma anche come principale competitor dell’Italia. Insieme a Germania, Usa, Francia e Spagna è infatti tra i principali competitor nelle categorie merceologiche del Bello e Ben Fatto. Le eccellenze italiane restano abbastanza protette, ma l’upgrading dei prodotti cinesi è sempre più pressante. Nel 2020, la Cina è stato uno dei pochi paesi al mondo a registrare una crescita positiva (oltre il 2%) e, secondo le ultime stime del Fondo Monetario Internazionale, nell’anno in corso farà registrare un tasso di crescita del Pil superiore all’8%.
Il rapporto dell’Ufficio Studi di Confindustria evidenzia anche che gli effetti della pandemia non hanno risparmiato il Bello e Ben Fatto, che ha subito pesanti ripercussioni. In particolare, i settori legati alla Moda sono stati tra i più colpiti; ma, nonostante tutto, alcune eccellenze del made in Italy hanno continuato a crescere anche nel 2020 e si sono mostrati particolarmente resilienti.
Nel 2020, comunque, la pandemia ha avuto un impatto significativo sul commercio internazionale. L’impatto della crisi è stato generalizzato e asimmetrico al tempo stesso. A partire da marzo 2020 le esportazioni del Bello e Ben Fatto italiano sono state significativamente inferiori allo stesso mese dell’anno precedente (85% dei valori del 2019); ma da luglio le esportazioni hanno ripreso a crescere a un ritmo comparabile, e leggermente superiore, allo stesso periodo del 2019. In generale, nel 2020 le esportazioni di prodotti italiani belli e ben fatti hanno tenuto rispetto alle esportazioni di altri grandi Paesi manifatturieri europei.
Ma l’Italia ha dimostrato di essere forte. “La nostra forza è rappresentata dall’indiscutibile qualità e riconoscibilità dei nostri prodotti. Il Made in Italy è vivo e lotta” ha commentato Barbara Beltrame Giacomello, vice presidente di Confindustria per l’Internazionalizzazione. E ha aggiunto: “La sfida ora è capire come trasformare le nostre imprese: rafforzare i canali di vendita digitale, stabilizzare le relazioni internazionali e preservare e aumentare la riconoscibilità del Made in Italy”.
Banca del Piemonte è vicina alle aziende del suo territorio ed offre una consulenza specializzata per sviluppare un programma di crescita commerciale all’estero con Credito Global e con programmi specifici di supporto all’internazionalizzazione delle aziende.
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