C’è un altro “derby”, tra Italia e Francia, oltre a quello del vino. La nuova sfida è sul mercato delle acque minerali, che finanziariamente vale meno del nettare di Bacco (tre miliardi di euro contro undici); ma non è meno importante per la conquista delle tavole a livello mondiale. Le acque minerali, infatti, rappresentano un’eccellenza del food&beverage italiano, del quale costituiscono un turbo per le esportazioni agro-alimentari.
Anche se nel 2020, dopo quasi dieci anni di crescita ininterrotta, le vendite di acque minerali italiane all’estero hanno subito una battuta d’arresto a causa del Covid-19, comunque inferiore a quelle dei principali concorrenti, a partire proprio dalla Francia. Come rilevato dal Mineral Water Monitor, l’osservatorio Nomisma delle acque minerali e termali, che ha registrato anche una contrazione del mercato interno, per effetto della pandemia. Il Coronavirus, infatti, ha mutato il modello di consumo degli italiani, portando a un crollo delle vendite nel canale Horeca (Hotellerie, restaurant, cafe e catering), alla stazionarietà delle vendite in Gdo (Grande distribuzione organizzata), nonché al raddoppio del giro d’affari dell’e-commerce.
Comunque, escludendo il 2020, i dati del Mineral Water Monitor evidenziano il boom dell’export delle acque minerali italiane, raddoppiato in valore (+101%), tra il 2010 e il 2019. Un incremento ancora più significativo se paragonato a quello degli altri principali prodotti alimentari Made in Italy: le esportazioni dei formaggi nello stesso periodo sono aumentate del 93%, quelle dei vini del 64% e del 49% quelle della pasta. Solo l’export del caffè ha registrato performance migliori con una crescita del 119%.
A livello globale, l’Italia figura secondo posto tra i Paesi esportatori di acque minerali in termini di valore, con 539 milioni di euro nel 2020. È preceduta unicamente dalla Francia, prima con 651 milioni, mentre seguono le Fiji, al terzo posto con 121 milioni (nel 2019) e, al quarto, la Georgia, con 101 milioni. Le acque minerali delle Fiji sono molto apprezzate dagli Stati Uniti, mentre quelle della Georgia hanno un buon mercato in Russia.
Restando sul confronto tra Italia e Francia, è interessante una differenza tra il mercato del vino e quello dell’acqua minerale. Se sul vino i francesi vantano un posizionamento quasi doppio in termini di prezzo all’export (6,2 euro al litro contro i 3,6 euro dei vini fermi italiani), nel caso dell’acqua minerale è l’Italia ad avere un prezzo medio all’export più elevato, ossia 0,36 euro al litro contro 0,26 euro della Francia.
Grazie alla qualità delle sue acque, alla presenza di brand dalla forte notorietà e all’ottima percezione da parte del consumatore finale, negli ultimi anni l’Italia ha performato meglio dei suoi competitors stranieri e ha accresciuto la propria quota di mercato, confermando la propria leadership in alcuni Paesi. È questo il caso degli Stati Uniti, primo mercato al mondo per importazioni di acque (461 milioni di euro), dove l’Italia detiene la quota del 41%. Gli altri maggiori importatori delle acque del Bel Paese sono la Francia, dove l’Italia è leader con la quota dell’84% del mercato, la Germania, la Svizzera e il Regno Unito.
L’anno scorso, causa Covid, l’export italiano delle acque minerali ha subito una battuta d’arresto, calando dell’11% rispetto al 2019. Questo è avvenuto a causa del Covid, che ha provocato una contrazione dell’export pari all’11%. Meno della Francia (-15%). E questo ha permesso all’Italia di ridurre le distanze a 111 milioni di euro rispetto ai 211 di cinque anni fa. Nel 2020, tra i principali importatori mondiali di acque minerali, gli unici ad aver registrato un incremento degli acquisti dall’estero sono gli Usa (+6,8%). Gli altri Paesi, invece, hanno subito una contrazione delle importazioni: la Germania ha registrato un calo del 4,7%, il Giappone del 6,7%, il Regno Unito addirittura del 18,6%.
In Italia, le vendite di acque minerali stanno soffrendo particolarmente nel settore Horeca, a causa delle chiusure (o dei limiti di orari) di bar e ristoranti, della riduzione dei flussi turistici e dell’incremento dello smart working. La Gdo risulta stazionaria, mentre il canale e-commerce ha raddoppiato il giro di affari. Le restrizioni agli spostamenti durante il lockdown e la possibilità di ricevere la spesa direttamente a casa hanno fortemente incentivato le vendite online, raddoppiate tra il 2019 e il 2020 sia in termini di quantità (+94,5%) sia in termini di volume (+92,5%). Nonostante ciò, però, il peso dell’e-commerce sull’off-trade (Gdo e retail) risulta ancora marginale, rappresentando appena il 2%.
“L’industria piemontese ha reagito decisamente bene alla pandemia”, ne è convinto Camillo Venesio, Amministratore Delegato e Direttore Generale di Banca del Piemonte e ne parla nell’intervista rilasciata a La Stampa.
Gelati amari, quest’anno, nel giorno dedicato dal Parlamento europeo specificatamente al prodotto che nasce dall’arte gelatiera artigianale. La ricorrenza del 24 marzo, infatti, è caduta in piena emergenza Covid, con la pandemia che, in Italia, ha fatto crollare del 40% gli acquisti di coni e coppette, per effetto delle chiusure forzate, dei limiti agli spostamenti e della paralisi del turismo nazionale e, soprattutto, straniero.
I lockdown hanno fortemente penalizzato i consumi nelle gelaterie tradizionali; mentre hanno favorito il ritorno della produzione di gelato in casa e hanno addirittura generato un boom del gelato consegnato a domicilio, tanto che ne è stata registrata la crescita del 113% rispetto al 2019, secondo l’ultimo report dell’Osservatorio “Gelato-Delivery”.
Comunque, il cambiamento delle abitudini provocato ovunque dalle misure anti-Coronavirus ha fortemente condizionato, negativamente, l’attività delle 39mila gelaterie che in Italia danno lavoro a 75 mila persone. E sulla drastica riduzione delle vendite nel 2020 ha pesato molto l’assenza di 57 milioni di turisti stranieri, i quali sono, da sempre, tra i più entusiasti consumatori del gelato Made in Italy, offerto in una gamma che non ha eguali nel mondo per qualità e quantità, in funzione della varietà delle materie prime e dell’estro dei nostri maestri gelatieri.
Le difficoltà delle gelaterie artigianali, fra l’altro, si ripercuotono a cascata sull’intera filiera, perché, come ha ricordato la Coldiretti, nelle gelaterie italiane vengono utilizzati annualmente ben 220 milioni di litri di latte, 64 milioni di chili di zuccheri, 21 milioni di chili di frutta fresca e 29 milioni di chili di altri prodotti, con un evidente impatto sulle imprese fornitrici. Quantità che fino all’arrivo del Covid-19 erano in costante crescita, anche perché, con il cambiamento climatico, si sta verificando una sempre più marcata tendenza alla destagionalizzazione degli acquisti di gelato, non più limitata all’estate, come succedeva in passato.
E quello dell’ampio allungamento del periodo di consumo non è l’unico fenomeno riscontrato sul mercato del gelato, che vede crescere anche la tendenza all’offerta delle “specialità della casa” in risposta alle domande della clientela naturalista, dietetica o vegana. Non solo: negli ultimi anni si è registrato un vero e proprio boom delle agrigelaterie artigianali, che garantiscono la provenienza della materia prima – dal latte di asina a quello di capra, di bufala e di pecora (novità di quest’anno) – oltre che della grande varietà prodotti agroalimentari nazionali, per quanti chiedono il gelato al basilico piuttosto che al prosecco.
In epoca moderna – ricorda la Coldiretti – la storia del gelato risale alla prima metà del XVI secolo, con l’introduzione stabile di sorbetti e cremolati, nell’ambito di feste e banchetti alla corte medicea di Firenze; ma fu il successo dell’export del gelato in Francia a fare da moltiplicatore globale, fino al debutto ufficiale in terra americana con l’apertura della prima gelateria a New York, nel 1770, per iniziativa dell’imprenditore genovese Giovanni Bosio.
“Il miglior modo per gestire i rifiuti è evitare che diventino tali”. Lo sostiene il centro studi Ref Ricerche, che propone un approccio davvero circolare (cioè rigenerare o riutilizzare un prodotto ancora prima che finisca del tutto il suo ciclo di vita), considerando la possibilità di un salto di qualità e di un vero e proprio cambio di paradigma.
Un rifiuto viene buttato in un cassonetto (apposito, si spera), trasportato fino alla discarica, poi lavorato e riconvertito. “Tutti questi passaggi si possono evitare, anticipandoli” spiegano gli studiosi di Ref, che, esaminando la “gerarchia dei rifiuti” e le opzioni preferibili vi pongono al vertice il riuso e la preparazione al riutilizzo.
Un approccio che crea le migliori condizioni anche per incentivare l’innovazione (contribuendo a ridurre l’uso di materie prime vergini), allungare l’utilità economica dei prodotti e dei servizi; generare occupazione e riposizionare competenze e know-how verso produzioni alternative. Per non parlare, poi dei benefici ambientali ed economici del mercato della “seconda mano”.
La compravendita di oggetti usati nel 2019 è stata pari a 24 miliardi di euro, di cui 10,5 attraverso l’online. Cifra, quest’ultima, che non sorprende considerando il giro d’affari di colossi del commercio di seconda mano attivi online come eBay, che è quotato al Nasdaq; ma anche di social network come Facebook. Comunque, le circa tremila imprese operative stabilmente sul mercato italiano dell’usato per conto terzi fatturano circa 850 milioni di euro l’anno, mentre il segmento che impiega più persone è quello dell’ambulantato, il quale a volte è solo un hobby ma che intanto coinvolge circa 50mila micro-attività, con una stima di 80mila addetti.
Oltre alla rivendita però, c’è anche il “remanufactoring”, ovvero la riparazione, la rigenerazione, il rinnovamento vero e proprio del ciclo di vita di un prodotto, che non viene più buttato o rivenduto così come è, ma magari deassemblato e ricomposto: in questo caso il valore aggiunto è il risparmio di materia prima, a vantaggio anche dell’investimento su una forza lavoro specializzata. Questa è forse la sfida più interessante, perché oltre al beneficio ambientale e alla possibilità di generare nuove transazioni commerciali (a prezzo inferiore per i consumatori), c’è la creazione di occupazione, considerando che il remanufacturing è una attività a elevato tasso di manodopera, che può permettere di recuperare parte della disoccupazione originata dalla delocalizzazione produttiva e dall’automazione.
Non a caso, secondo gli scenari ricostruiti dallo European Remanufacturing Network (Ern) – come ricorda il Centro studi Ref Ricerche, il remanufacturing alimenta un mercato che in Europa vale circa 30 miliardi e che potrebbe crescere fino a 100 miliardi entro il 2030, cifra già raggiunta negli Usa.
L’automotive e il settore della costruzione di macchine industriali rappresentano, ciascuno, circa il 30% del mercato del remanufacturing, il resto si ripartisce per un 27% agli apparecchi elettrici ed elettronici, per un 7% alla componentistica per automezzi pesanti e fuoristrada e un 3% sia all’aerospazio che alle forniture tecnologiche in genere.
Lo stesso Ern stima che la rigenerazione consente di risparmiare tra il 60 e l’80% del valore dei prodotti nuovi, soprattutto in termini di minori costi di materie prime, energia, trasporto e distribuzione. Insomma, un’opportunità davvero difficile da non cogliere. Gli autori dello studio sostengono che “le principali leve che potrebbero favorire la diffusione della prevenzione e del riutilizzo in Italia sono tre: il nuovo Piano d’Azione per l’Economia Circolare, promosso dalla Commissione Ue; il nuovo Programma Nazionale di Prevenzione dei Rifiuti, che il ministro per la Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, dovrà redigere. Più la regolazione Arera nel settore dei rifiuti urbani”.
Comunque, in Italia, un primo passo avanti è già stato fatto: nell’ambito di Industria 4.0, nel maggio scorso, è stato deliberato dal Mise (ministero dello Sviluppo economico) il decreto attuativo del Piano Transizione 4.0, che destina un credito di imposta del 10% alle attività oggetto di innovazione tecnologica finalizzate al raggiungimento di obiettivi di transizione ecologica.
In queste settimane Banca del Piemonte sta rafforzando la Rete Private Bankers con l’inserimento di due giovani manager provenienti da lunghe esperienze all’estero.
Diamo il benvenuto a Giuseppe Corcelli e Gianluca Quaranta.