In Italia, anche nei periodi di crisi, le medie imprese confermano di avere un modello dinamico e più resiliente rispetto alle grandi. E la chiave di questo successo sta nell’attenzione verso la qualità e il capitale umano, che rappresenta il fattore determinante della competitività.
Lo dimostrano, fra l’altro, il loro aumento del fatturato nel 2022 (+15%) e le prospettive di crescita, anche se più contenute, per il 2023 (+3,5%).
È quanto emerge dal nuovo rapporto sulle medie imprese industriali del nostro Paese realizzato dall’Area Studi Mediobanca, Unioncamere e dal Centro Studi Tagliacarne.
Sono state esaminate 3.660 imprese manifatturiere a controllo familiare italiano, con fatturato compreso tra 17 e 370 milioni di euro e una forza lavoro tra i 50 e i 499 addetti. Un ecosistema che nel 2021 ha realizzato vendite aggregate pari a 184,1 miliardi di euro, occupando oltre 523mila dipendenti.
Dopo i rimbalzi del fatturato del 2021 (+20,4%) e del 2022 (+15%), le medie imprese manifatturiere italiane affrontano le incertezze della congiuntura forti di una grande capacità di adattamento, che le ha rese meno sensibili agli shock rispetto al resto dell’economia.
Le aspettative per gli anni a venire sono ispirate da un ‘ottimismo temperato’: il 55% ritiene di poter crescere, ma in maniera lieve. Si tratta di un gruppo che fa da spartiacque tra un 25% di aziende ottimiste, che immaginano un futuro in incremento significativo e un 20% che, al meglio, manterrà stabili le proprie quote di mercato.
Rispetto al periodo precedente al Covid e al conflitto russo-ucraino, l’attuale contesto presenta più rischi che opportunità per il 37,7% del campione, anche perché il 28% di esse ritiene di confrontarsi con competitors meno numerosi ma più agguerriti.
Fortunatamente, per oltre un quarto delle medie imprese, negli ultimi anni è cresciuto il gradimento verso il made in Italy, che rappresenta una sorta di ‘ancora valoriale’ in un quadro dai riferimenti instabili.
Non sorprende quindi che l’obiettivo di raggiungere una dimensione ‘adeguata al contesto’ – non un gigantismo fine a sé stesso – abbia scalato l’agenda degli imprenditori. In alcuni ambiti, infatti, la capacità di attivare leve strategiche importanti come l’acquisizione di competitor internazionali o la realizzazione di investimenti digitali, è agevolata dalla dimensione.
Comunque, la volontà di continuare a investire in Italia e di migliorare la qualità appare un tratto comune a tutte le medie imprese.
Tra i ‘capitali’ strategici per lo sviluppo futuro, quello umano rappresenta, per le medie imprese, l’elemento centrale su cui focalizzare i maggiori sforzi. In una scala di rilevanza da 1 a 5, ottiene un punteggio pari a 4,6, seguito dal capitale tecnico (4,1), da quello finanziario (3,8), conoscitivo (3,6) e organizzativo (3,5).
La disponibilità di capitale umano specializzato ha una diretta relazione con la qualità dell’organizzazione e delle produzioni dell’impresa che rappresentano la ‘stella polare’ del made in Italy.
La consapevolezza di dover contare su capitale umano adeguato per migliorare la propria competitività ha favorito anche lo sviluppo di politiche specifiche per trattenere i migliori talenti. La leva economica è la più considerata e infatti il 50% adotta incrementi salariali per scongiurare il fenomeno delle dimissioni spontanee, mentre il 29% punta sui benefit aziendali e il 27% sulla flessibilità degli orari di lavoro. Solo il 13% incentiva lo smart-working.
Quanto alla doppia transizione, se per metà delle imprese è a portata di mano, per l’altra metà è un obiettivo pieno di ostacoli. A scoraggiare gli investimenti in questa direzione sono soprattutto il deficit culturale (assenza di conoscenza dei vantaggi, mancanza di interesse del management) segnalato dal 33% delle medie imprese che non investiranno in green e dal 27% di quelle che non investiranno nel digitale nel triennio 2023-2025.
Gli aspetti economici (scarsità delle risorse, problemi di accesso al credito, tassi di interesse elevati, costi delle tecnologie o delle materie prime green troppo elevati) sono un problema particolarmente sentito dal 29% delle medie imprese che non investono nel verde e dal 31% di quelle che non investono nel digitale.
Vi sono alcuni mutamenti strutturali nella governance delle imprese familiari che possono agire da facilitatori nello sviluppo di tutti i ‘capitali’ strategici, umano ma non solo. L’apertura del capitale è uno di questi.
Le grandi discontinuità che si sono “aperte” hanno aiutato a derubricare l’apertura del capitale da tabù culturale a opzione operativa: il 12,3% delle aziende ha visto crescere le proposte di ingresso nel proprio capitale da parte di fondi di private equity e il 13,9% le occasioni di operazioni di M&A. La quotazione resta ancora poco praticata dalle medie imprese prevalentemente per una ritrosia culturale: oltre il 75% la esclude o non l’ha in agenda.
Dall’indagine emerge anche che il modello produttivo italiano è fortemente radicato nel Paese: quasi il 90% delle aziende produce esclusivamente in Italia. D’altra parte, le medie imprese esportano molto (il 43% del loro fatturato) e praticano una delocalizzazione molto selettiva.
Infine, le tematiche Esg rappresentano una parte rilevante delle strategie aziendali grazie all’apprezzamento sempre maggiore da parte dei consumatori, in quanto sinonimo di cura del prodotto e di integrità delle imprese. Il 65,3% delle medie imprese considera che si tratti di un trend destinato a perdurare e una fonte di vantaggio competitivo.
Vi è comunque una quota di scettici che vi vede un costo non evitabile ma privo di ricadute positive (12,2%) o una moda temporanea, sebbene non trascurabile (8,2%).
Tuttavia, numeri alla mano, chi integra criteri Esg nelle pratiche aziendali realizza performance migliori rispetto a chi non lo fa.
Nonostante le incertezze meteo registrate a giugno, per il turismo si prevede un’estate calda in Italia: nel trimestre estivo il sistema ricettivo del nostro Paese dovrebbe registrare 212,8 milioni di presenze, circa 12,5 milioni in più rispetto all’estate 2022 (+6,2%). A trainare la crescita, ancora una volta, i turisti stranieri (+9,6%).
È quanto emerge dall’indagine di Assoturismo-Confesercenti, realizzata dal Centro Studi Turistici di Firenze, su un campione di 1.492 imprenditori del settore nazionale.
Previsioni positive, che potrebbero anche migliorare: la sensazione di tutto il comparto è che i valori ritorneranno oltre i livelli pre-Covid, grazie alle partenze di coloro che ancora non hanno programmato il viaggio.
Per quanto riguarda gli stranieri, la ripresa è già arrivata. Il crollo scatenato dalla pandemia è stato recuperato e quest’estate ci saranno più turisti esteri rispetto al pre-Covid. Per il trimestre estivo, infatti, si prevedono oltre 101,2 milioni di presenze straniere, il 9,6% in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno e un valore più alto (+0,9%) anche di quello registrato nell’estate 2019. Gli incrementi più significativi sono stati segnalati per i flussi tedeschi –presenti in tutte le aree e tipologie di offerta, ma soprattutto nelle località dei laghi – francesi, svizzeri, olandesi, britannici, austriaci e belgi. Tra i mercati extraeuropei aumentano soprattutto i visitatori Usa: l’interesse dei turisti americani è orientato prevalentemente verso le città/centri d’arte e le aree rurali e della collina.
Comunque, anche il numero di turisti italiani continua a crescere, sebbene più lentamente. Per l’estate si prevede un aumento del 3,3%, con oltre 111,6 milioni di presenze stimate, però ancora l’1,2% in meno rispetto al 2019.
Dunque, quest’estate dovrebbe ridursi sensibilmente la differenza tra le due componenti del mercato: la quota della domanda italiana è stimata al 52,4%, contro il 47,6% della domanda estera (i valori del 2019 erano rispettivamente 52,9% e 47,1%).
Per il settore alberghiero le aspettative di crescita si attestano al +6,4%, trainate l’incremento del 10,7% di richieste giunte dai mercati esteri. Prenotazioni in crescita anche per il settore extralberghiero, con un +5,9%; ancora determinanti sono le richieste degli stranieri, stimate in aumento dell’8,4% rispetto al 2022.
Le destinazioni.
Durante il periodo estivo la crescita del mercato sarà avvertita in tutte le aree del Paese, anche se non in maniera uniforme. Infatti, l’andamento migliore è stato segnalato dagli imprenditori del Nord Ovest e del Sud/Isole, sostenuto grazie alle prenotazioni dei turisti stranieri in aumento rispettivamente del 14,8% e del 16,2%.
Valori altrettanto positivi sono stati segnalati dagli imprenditori del Centro e del Nord Est, anche questi trainati dalle richieste della domanda straniera.
I risultati migliori del periodo sono attesi per le imprese ricettive delle città d’arte/centri minori, con una crescita stimata dell’8,3%. In particolare, per l’estate, la crescita stimata degli italiani è del 5,7%, mentre le presenze straniere aumentano del 9,7%.
Cresce anche il grado di internazionalizzazione delle città, borghi e centri minori, che ospiteranno prevalentemente stranieri (64,5% del totale).
Per le località dei laghi e le aree rurali e di collina la variazione attesa è del 7,8%.
In crescita anche il movimento turistico delle località marine e montane, rispettivamente con l’incremento del 5,9% e del 6,6%.
Abbastanza positiva anche la percezione delle imprese che operano nelle località termali e ad “altro interesse”, con una crescita stimata rispettivamente del 3,5% e del 3,4%.
“Finalmente quest’estate, dopo tre anni, possiamo dire che è i visitatori stranieri sono tornati ai livelli pre-pandemia, anche se sul fronte della domanda italiana si sente l’erosione della capacità di spesa delle famiglie”, ha commentato Vittorio Messina, presidente di Assoturismo Confesercenti.
Che ha aggiunto: “Le previsioni per l’estate restano comunque assolutamente positive. Una conferma dell’attrattività della destinazione Italia e del dinamismo del comparto, che però va più che mai sostenuto. I buoni risultati non devono farci dimenticare vecchi e nuovi problemi: dalla mancanza di infrastrutture alla concorrenza sleale dell’abusivismo turistico, dalla carenza di personale all’incremento dei tassi di interesse sui mutui”.
In Italia si sta discutendo molto di demografia e, in particolare, sia del crollo della natalità sia dell’invecchiamento della popolazione.
A proposito della longevità, quasi sempre viene interpretata come un costo, “anche se può, al contrario può rivelarsi un’ottima opportunità di crescita e investimento per il Paese, con ricadute proficue per l’occupazione, il settore dei servizi, per attività commerciali e produttive dedicate, così come per il mondo della finanza in genere”sostiene Michaela Camilleri (Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali).
La Silver Economy, infatti, è una grande economia e lo sarà ancora di più nel prossimo futuro. Perché mossa da almeno tre importanti fattori: 1) la forte spinta demografica, che aumenterà la platea dei beneficiari; 2) l’ammontare della ricchezza detenuta dagli anziani, le cui caratteristiche principali sono consistenza e stabilità; 3) la propensione al consumo verso alcuni particolari settori economici, dall’alimentazione alla sanità, dalla casa alla tecnologia.
Per la prima volta nella storia dell’umanità, i Silver in Italia, come del resto in molte altre nazioni sviluppate o in via di sviluppo, non sono mai stati così tanti: oggi, gli over 65 nel nostro Paese sono circa 14 milioni, pari a poco meno del 24% della popolazione totale e sono destinati a diventare un terzo della popolazione entro il 2050.
Fra l’altro, non si modificherà solo la struttura per età della popolazione ma anche l’organizzazione sociale, a partire dalle famiglie spesso senza figli e alla fine mononucleari: le tendenze di breve e medio periodo mostrano un progressivo incremento percentuale delle persone sole, che dovrebbero salire al 31,2% nel 2030 e al 32,7% nel 2040. Il che significa che tra meno di vent’anni un Silver su tre vivrà da solo.
Peraltro, nelle fasi più avanzate della vita, le implicazioni socio-sanitarie saranno enormi: difficoltà motorie, compromissione delle normali attività quotidiane, malattie croniche, non autosufficienza, solitudine.
Tutto ciò comporterà una visione del futuro differente da quella di oggi, a partire dallo stile di vita, dal risparmio e dalla visione del futuro.
Fatto altrettanto importante rispetto al passato è che i Silver sono i maggiori detentori di ricchezza, intesa come patrimonio sia mobiliare che immobiliare. Inoltre, dispongono di flussi di reddito certi e non dipendenti dai cicli economici (la popolazione di età compresa tra i 51 e i 65 anni dispone di un reddito medio annuo pari a 20.779 euro e di 20.260 euro quella over 65).
Evidenze che trovano ulteriore conferma nei dati relativi alla ricchezza netta familiare media per caratteristiche del capofamiglia: nel 2020, in Italia le famiglie con capofamiglia di età compresa tra i 51 e i 65 anni disponevano di una ricchezza pari a 263.573 euro e quelle con capofamiglia over 65 pari a 215.691 euro, i valori più alti tra le fasce d’età considerate.
Se, come emerge dai risultati della ricerca del Centro studi di Itinerari Previdenziali, il maggior desiderio dei Silverè vivere il più a lungo possibile in buona salute e invecchiare attivamente, “si può ragionevolmente supporre che buon parte dei consumi di questa fascia della popolazione saranno destinati verso beni, servizi e, più in generale, attività economiche legate al raggiungimento di questi obiettivi” ha commentato Michaela Camilleri.
Subito dopo le spese destinate all’abitazione, infatti, i Silver concentrano maggiormente i consumi verso quei beni e servizi utili a preservare la propria salute fisica e mentale.
In questo contesto, il sistema economico, produttivo e dei servizi sta progressivamente prendendo atto delle nuove esigenze e si sta attrezzando di conseguenza, proponendo soluzioni studiate specificamente per questa fascia di popolazione, quali servizi e prodotti finanziari e assicurativi calibrati, prodotti alimentari, farmaceutici e nutrizionali specifici, mezzi e attrezzature per favorire l’autonomia e la mobilità, strumenti di domotica, dispositivi e piccoli elettrodomestici per il controllo a distanza della salute o servizi di svago e assistenziali.
Nasce così una grande economia, che crea occupazione e che obbliga a superare un’immagine fin qui troppo stereotipata degli anziani: “non (solo) soggetti prevalentemente bisognosi di assistenza – si legge nel rapporto di Itinerari Previdenziali – ma anzi platea attiva le cui specifiche necessità, se adeguatamente comprese e assecondate, possono diventare un’importante leva di sviluppo per il Paese e la società intera”.
Banca del Piemonte ha aderito all’iniziativa ABI per affrontare l’incremento delle rate dei mutui a tasso variabile.
L’iniziativa è nata in risposta all’incremento dei tassi di riferimento della Banca Centrale Europea che, a partire da luglio 2022, ha determinato un sostanziale aumento delle rate dei “mutui casa” a tasso variabile con possibili difficoltà, per coloro che hanno scelto di sottoscrivere un mutuo a tasso variabile, a sostenerne il pagamento con regolarità.
La prima misura adottata dalla Banca riguarda l’ampliamento della platea dei beneficiari della rinegoziazione dei contratti di mutuo da tasso variabile a tasso fisso, introdotta dall’art.1, comma 322, della Legge 29 dicembre 2022, n. 197*, ammettendo alla misura soggetti con reddito ISEE sino a 45.000 € e importo originario del mutuo sino a 300.000 €.
Sono previste, inoltre, ulteriori misure, come ad esempio l’allungamento della durata del piano di ammortamento, per poter individuare la soluzione più adatta ad ogni cliente. Banca del Piemonte promuove anche la diffusione della conoscenza presso la propria clientela della possibilità di ricorrere al Fondo di solidarietà per i mutui per l’acquisto della prima casa (cosiddetto Fondo Gasparrini), al fine di sospendere – al verificarsi di specifici eventi – il pagamento delle rate del finanziamento.
*La legge 29 dicembre 2022 n. 197 (legge di bilancio per il 2023) ha previsto la possibilità di rinegoziare il mutuo con la propria banca passando dal tasso variabile al tasso fisso senza costi aggiuntivi.
Il termine per la rinegoziazione è fissato al 31.12.2023 e riguarda i contratti di mutuo ipotecario:
aventi tasso e rata variabile per tutta la durata del contratto;
stipulati prima dell’1.2023;
di importo originario non superiore a 200.000 €;
reddito ISEE inferiore a 35.000 €;
finalizzati all’acquisto o alla ristrutturazione di unità immobiliari adibite ad abitazione.
Avviando la procedura di rinegoziazione, il mutuatario ha diritto a ottenere l’applicazione di un tasso annuo nominale fisso non superiore al minore tra l’interest rate swap (IRS) in euro a 10 anni/l’interest rate swap (IRS) in euro di durata pari alla durata residua del mutuo ovvero, se non disponibile, la quotazione dell’IRS per la durata precedente, riportato alla data di rinegoziazione alla pagina ISDAFIX 2 del circuito Reuters (ora ICESWAP2) al tasso così determinato si somma uno spread pari a quello indicato, ai fini della determinazione del tasso, nel contratto di mutuo. È possibile inoltre concordare anche l’allungamento del piano di rimborso per un periodo massimo di 5 anni, purché la durata residua del mutuo all’atto della rinegoziazione non diventi superiore a 25 anni.