La vendemmia in Italia mette in moto un “esercito del vino”, che conta 1,5 milioni di persone, fra quelle impegnate direttamente nei campi, nelle cantine e nella distribuzione commerciale, ma anche quelle nelle attività collegate, dall’enoturismo alla cosmetica fino alle bioenergie.
È quanto emerge da un’analisi della Coldiretti, in occasione della divulgazione delle stime a metà vendemmia, che confermano sostanzialmente quelle diffuse dalla principale organizzazione agricola il 3 agosto scorso, all’inizio della raccolta.
La produzione italiana 2023 è prevista intorno ai 43,9 milioni di ettolitri, in calo del 12% rispetto al 2022 e facendo entrare quest’anno vinicolo fra i peggiori dell’ultimo secolo per quantità, insieme al 1948, al 2007 e al 2017.
Il risultato è che, per la prima volta dopo tanto tempo, l’Italia potrebbe non risultare più il maggiore produttore mondiale di vino, venendo superata in quantità dalla Francia, che dovrebbe arrivare a 45 milioni di ettolitri.
“La sfida con i cugini francesi, comunque, è soprattutto sulla valorizzazione della produzione che in Italia si attende comunque di alta qualità e – sottolinea la Coldiretti – può contare su 635 varietà iscritte al registro viti, il doppio rispetto ai francesi, con 332 vini a denominazione di origine controllata (Doc), 76 vini a denominazione di origine controllata e garantita (Docg) e 118 vini a indicazione geografica tipica (Igt); mentre il restante 30% della produzione nazionale è costituito da vini da tavola. A dimostrazione del ricco patrimonio di biodiversità, con vini locali di altissima qualità grazie a una tradizione millenaria”.
Il processo di qualificazione del vino Made in Italy è confermato dal successo dell’export, anche in Francia, dove si bevono sempre più bottiglie italiane (+18,5% nei primi cinque mesi del 2023).
Il vino è il prodotto agroalimentare italiano più esportato: il valore delle vendite all’estero nel 2022 è stato di 7,9 miliardi.
Quanto alla filiera, va dai viticoltori agli addetti nelle cantine fino alla distribuzione commerciale, per allargarsi ai settori connessi, di servizio e nell’indotto, che si sono estesi negli ambiti più diversi: dall’industria vetraria a quella dei tappi, dai trasporti alle assicurazioni, da quella degli accessori, come cavatappi e sciabole, dai vivai agli imballaggi, dalla ricerca e formazione alla divulgazione, dall’enoturismo alla cosmetica e al mercato del benessere, dall’editoria alla pubblicità, dai programmi software fino alle bioenergie ottenute dai residui di potatura e dai sottoprodotti della vinificazione (fecce, vinacce e raspi).
“Il vino è un tesoro del Made in Italy, sul cui futuro pesano però le incognite legate alle politiche adottate dall’Unione Europea, a partire dalla scelta della Commissione di dare il via libera all’introduzione di etichette allarmistiche decisa dall’Irlanda” ha scritto la Coldiretti, aggiungendo che “il nostro vino deve affrontare anche altri attacchi, quali l’autorizzazione Ue, nell’ambito delle pratiche enologiche, all’eliminazione totale o parziale dell’alcol anche nei vini a denominazione di origine, la pratica dello zuccheraggio, la produzione e commercializzazioni di vini ottenuti dalla fermentazione di frutti diversi dall’uva come lamponi e ribes, molto diffusi nei Paesi dell’Est”.
Ma a pesare, secondo la Coldiretti, sono anche i rischi legati alle richieste di riconoscimento di denominazioni che evocano le eccellenze made in Italy, come nel caso del Prosek croato, un vino dolce da dessert tradizionalmente proveniente dalla zona meridionale della Dalmazia, contro la cui domanda di registrazione tra le menzioni tradizionali il nostro Paese ha fatto ricorso, in virtù del fatto che potrebbe danneggiare il Prosecco.
“Il vino rappresenta un patrimonio del Made in Italy anche dal punto di vista occupazionale – ha dichiarato il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini – e va difeso dai tentativi di colpevolizzarlo sulla base di un approccio ideologico che non tiene contro di una storia millenaria che ha contribuito non solo a far grande il nostro settore agroalimentare, ma si inserisce appieno nella dieta mediterranea che in questi anni ha visto gli italiani primeggiare per longevità a livello europeo e mondiale”.
L’intesa testimonia lo sforzo comune tra organizzazioni d’impresa e sistema bancario per garantire livelli di costi equi e trasparenti derivanti dall’utilizzo del servizio POS, riducendo gli oneri sulle operazioni entro i 30 € e i 10 € a carico degli esercenti.
Il protocollo intende promuovere ulteriormente la digitalizzazione, la modernizzazione e la concorrenza dei servizi di pagamento ed accrescere la trasparenza attraverso uno schema standard allegato al contratto stipulato dagli esercenti con banche e gestori dei circuiti che facilita il confronto delle condizioni offerte.
Banca del Piemonte che da sempre contribuisce alla digitalizzazione e alla diffusione degli strumenti di pagamento elettronici, continua nel suo impegno a favore del territorio e delle sue imprese.
Per questo motivo, la Banca mette a disposizione delle aziende con fatturato fino a 400.000 € la possibilità di richiedere, previa contrattualizzazione con la Banca, l’azzeramento delle commissioni sulle operazioni di valore minore o uguale a 10 € effettuate tramite POS e con circuito PAGOBANCOMAT®.
Al pari, la Banca ha aderito all’iniziativa Micropagamenti Nexi; tale iniziativa prevede il rimborso delle commissioni sulle transazioni di importo fino a 10 € per i clienti merchant aderenti all’iniziativa. Gli esercenti possono aderire gratuitamente e in modo autonomo direttamente da Nexi Business (disponibile in versione App o Portale).
La promozione Micropagamenti prevede che il fatturato del singolo esercente non sia superiore a 400.000€/anno e contestualmente prevede che il totale del transato POS del singolo esercente non sia superiore a 200.000 € nell’arco dei 12 mesi precedenti a ciascun rimborso.
E’ prevista inoltre una soglia massima di 50€ sul rimborso mensile: superata questa soglia, le ulteriori commissioni saranno addebitate regolarmente secondo le condizioni di accettazione contrattualizzate da ciascun cliente.
Tecnologie digitali, nuove formule organizzative aziendali e nuovi modelli di business: quasi il 70% delle imprese ha investito in almeno uno di questi ambiti della trasformazione digitale nel 2022 e il 41,4% ha adottato strategie di investimento integrate in grado di combinare queste tre aree. Entrambi i dati risultano superiori ai valori medi del quinquennio 2017-2021.
Per accompagnare la transizione 4.0, l’anno scorso, le imprese hanno affiancato alla dotazione tecnologica figure specializzate, cui è richiesto un portafoglio di competenze digitali da applicare ai diversi processi aziendali: si va dagli analisti e progettisti di software, agli ingegneri elettronici e in telecomunicazioni, fino agli ingegneri energetici e meccanici.
Tra le figure tecniche spiccano i programmatori, i tecnici web e quelli esperti in applicazioni, ma anche i tecnici dell’organizzazione della gestione dei fattori produttivi.
È quanto emerge dalle analisi dei dati del Sistema Informativo Excelsior di Unioncamere e Anpal, realizzate in collaborazione con il Centro Studi Tagliacarne.
Complessivamente, le imprese hanno richiesto le competenze digitali di base per la comunicazione visiva e multimediale a 3,3 milioni di profili professionali ricercati (pari al 64% del totale delle assunzioni programmate), le abilità relative all’utilizzo di linguaggi e metodi matematici e informatici per circa 2,7 milioni di posizioni (il 51,9%) e la capacità di gestione di soluzioni innovative 4.0 per 1,9 milioni (il 37,5%).
Le indagini Excelsior evidenziano una crescita diffusa delle difficoltà di reperimento, che si intensificano al crescere del grado di importanza attribuito alle competenze richieste per lo svolgimento della professione.
In particolare, si passa da una difficoltà di reperimento del 41,8% nel caso di richiesta della competenza digitale di base al 44,2% per il grado di importanza elevato; per le capacità matematico-informatiche il gap è anche più ampio (dal 42,7% al 47,7%), mentre per le competenze 4.0 la difficoltà varia dal 43,7% al 47,1%.
Per gestire le sfide tecnologiche e gestionali che le imprese devono affrontare è strategico il possesso di e-skill combinate tra loro.
Nel 2022, la domanda di e-skill mix (ossia la padronanza di almeno due delle tre competenze digitali) ha riguardato 823mila posizioni (646mila l’anno precedente): il mix di competenze digitali è richiesto ai laureati per il 49,9% delle assunzioni, in particolare nelle materie Stem come ingegneria elettronica e dell’informazione (87,5%) e scienze matematiche e fisiche ed informatiche (87,2%).
La percentuale più alta (54,1%) di richiesta di e-skill mix riguarda però i diplomati Its Academy, a dimostrazione della centralità di questi percorsi formativi nei processi di trasformazione digitale e del loro stretto collegamento con le esigenze del tessuto imprenditoriale e produttivo.
Per i profili in possesso di tali mix di competenze le difficoltà di reperimento raggiungono il 47,3% della domanda (7,1 punti percentuali in più rispetto al 2021); in particolare si concentrano nell’ambito delle professioni specialistiche legate all’implementazione dei processi di digitalizzazione, quali matematici, statistici e professioni assimilate (l’82,7% delle entrate per le quali il mix di competenza è ritenuto strategico è di difficile reperimento), ingegneri elettrotecnici (80,8%), ingegneri elettrotecnici (71,3%), analisti e progettisti di software (64,7%) e progettisti e amministratori di sistemi informatici (64,2%).
A livello territoriale, a programmare il maggior numero di assunzioni per richiesta di capacità di utilizzare linguaggi e metodi matematici e informatici con grado di importanza elevato sono le province di Milano (oltre 113mila), Torino (44mila), Bologna (23mila) e Brescia (22mila).
Per quanto riguarda le competenze digitali di base, sono molto importanti, nell’ordine, per circa 168mila lavoratori ricercati in provincia di Milano, per 126mila a Roma, per quasi 57mila a Torino e per oltre 55mila in provincia di Napoli.
Le stesse province occupano le prime quattro posizioni nella graduatoria dei territori in cui è importante il possesso di competenze 4.0, rispettivamente per 80mila assunzioni programmate in provincia di Milano, quasi 56mila in quella di Roma, oltre 30mila a Napoli e circa 29mila a Torino.
I cambiamenti climatici si confermano al primo posto tra le preoccupazioni degli italiani per l’ambiente: così si è espressa oltre la metà della popolazione di 14 anni e più (56,7%) nell’ultima indagine specifica dell’Istat. Seguono i problemi legati all’inquinamento dell’aria, avvertiti dal 50,2% del campione, mentre al terzo posto si colloca la preoccupazione per lo smaltimento e la produzione dei rifiuti (40%).
L’inquinamento delle acque (38,1% del campione), l’effetto serra e il buco nell’ozono (37,6%) sono percepiti come ulteriori fattori di rischio ambientale a livello globale.
In fondo alla graduatoria, invece, vi sono le preoccupazioni che coinvolgono una quota ristretta di popolazione (circa una persona su dieci), come l’inquinamento elettromagnetico, le conseguenze del rumore sulla salute e la rovina del paesaggio.
Quest’ultima, comunque, è una preoccupazione in crescita nelle regioni del Nord ed è percepita in maniera più forte nelle regioni a vocazione turistica, per esempio in Trentino-Alto Adige, oppure in regioni industrializzate come la Lombardia.
L’analisi dei dati in serie storica mostra in che misura le preoccupazioni legate al clima siano, nel tempo, al centro dell’interesse degli italiani di 14 anni e più. La preoccupazione per l’effetto serra, che nel 1998 coinvolgeva quasi sei persone su dieci, è scesa di circa 20 punti percentuali e interessa nel 2022 soltanto il 37,6% degli intervistati dall’Istat.
In senso inverso, il timore per i cambiamenti climatici, indicato nel 1998 dal 36% delle persone, sale al 56,7% nell’ultimo anno.
Valutando insieme i due problemi – effetto serra e cambiamenti climatici – emerge che l’attenzione della popolazione italiana per la crisi ambientale aumenta in misura decisa dal 2019 (70% di cittadini preoccupati), l’anno caratterizzato dal diffondersi in tutto il mondo dei movimenti di protesta studenteschi ispirati ai “Fridays For Future” di Greta Thunberg.
L’inquinamento dell’aria rappresenta, invece, una preoccupazione costante per un italiano su due, da oltre venti anni. L’attenzione al dissesto idrogeologico è scesa molto: dal 34,3% nel 1998 al 22,4% nel 2022. Quest’anno, però, certamente tornerà a salire in seguito alle tragedie avvenute nel nostro Paese.
Rispetto all’inquinamento del suolo, dell’acqua e alla distruzione delle foreste, il problema più sentito è l’inquinamento delle acque (interessa in maniera costante circa il 40% delle persone). La distruzione delle foreste, che nel 1998 preoccupava il 25,2% della popolazione, scende al 21,9% nel 2022. Si mantiene costante la percentuale di coloro che ritengono l’inquinamento del suolo tra le cinque preoccupazioni prioritarie in tema ambiente (da 20,3% a 21,5%).
Tra le altre preoccupazioni emerge quella legata alla produzione e allo smaltimento dei rifiuti che presenta un andamento altalenante nell’arco di venti anni; dopo una crescita registrata nel 2021 che aveva riportato l’indicatore al livello del 1998 (da 46,7% a 44,1%), nel 2022 si registra un nuovo calo di circa 4 punti percentuali
Vivere in centri dell’area metropolitana rafforza la preoccupazione per l’inquinamento dell’aria (53,8%); sempre in questi comuni è elevata la percentuale di quanti si preoccupano dello smaltimento dei rifiuti (44,6%) e infine è più alta la percentuale di quanti lamentano problemi legati all’inquinamento acustico (15%).
Nei piccoli comuni, invece, aumenta, la sensibilità rispetto all’inquinamento del suolo (24,7%) e quella relativa al dissesto idrogeologico (25,5%).
L’età rappresenta un’importante determinante della variabilità delle preoccupazioni ambientali. I giovani fino a 24 anni sono più sensibili delle persone più adulte per quanto riguarda la perdita della biodiversità (il 31,1% tra i 14 e i 24 anni contro il 19,4% degli over55), la distruzione delle foreste (26,2% contro 20,1%) e l’esaurimento delle risorse naturali (30,3% contro 22,6%).
Gli ultracinquantacinquenni si dichiarano invece più preoccupati dei giovani per il dissesto idrogeologico (25,8% contro 16,6% degli under25) e l’inquinamento del suolo (22,4% contro 18,7%).
Inoltre, la quota di cittadini che esprime preoccupazione per lo stato dell’ambiente cresce all’aumentare del titolo di studio, con differenziali relativi particolarmente elevati rispetto ai cambiamenti climatici (63,9% tra chi ha la laurea rispetto al 52,2% tra chi ha al massimo la licenza media), alla produzione e allo smaltimento dei rifiuti (48,8% rispetto al 35,2%) e all’inquinamento delle acque (41,7% contro 35,1%).
L’analisi dei comportamenti ambientali e degli stili di vita e di consumo sono di grande interesse per capire come i cittadini si rapportano all’ambiente.
Nel 2022, il 69,8% degli intervistati dall’Istat dichiara di fare abitualmente attenzione a non sprecare energia, il 67,6% a non sprecare l’acqua e il 49,6% a non adottare mai comportamenti di guida rumorosa al fine di limitare l’inquinamento acustico. Inoltre, il 35% della popolazione legge le etichette degli ingredienti e il 22,5% acquista prodotti a chilometro zero
Lettori in calo. L’anno scorso, il 39,3% degli italiani con più di sei anni hanno letto almeno un libro per motivi non strettamente scolastici o professionali. La quota si è ridotta rispetto a quanto rilevato nei due anni precedenti, quando i lettori erano rispettivamente il 41,4% (2020) e il 40,8% (2021). Dal 2000, quando la quota di lettori risultò pari al 39,1%, l’andamento è stato crescente fino a raggiungere il picco massimo nel 2010 (46,8%), per poi ridiscendere progressivamente fino ad arrivare nel 2016 allo stesso livello del 2001 (40,5%).
In questo quadro, la contrazione registrata nel 2022 porta la quota di lettori al livello più basso mai registrato in quasi venticinque anni.
Comunque, anche nel 2022 si evidenzia una rilevante differenza di genere in favore delle donne: la percentuale delle lettrici è del 44% (-1,7 punti percentuali sul 2021), quella dei lettori del 34,3% (-1,6).
La quota più rilevante di lettori (il 44,4%) è formata da lettori “deboli”, cioè quelli che dichiarano di aver letto al massimo tre libri nei 12 mesi precedenti l’intervista fatta dall’Istat. Il 39,3% può, invece, essere considerato “lettore medio”, avendo letto da 4 a 11 libri nell’ultimo anno. Infine, soltanto il 16,3% ha letto almeno 12 libri nell’ultimo anno e appartiene perciò alla fascia dei lettori “forti”.
La quota di lettori forti è più alta tra le lettrici che non tra i lettori. Inoltre, valori più elevati di lettori forti si osservano tra le persone di 60 anni e più. Al contrario, sono gli uomini a presentare più spesso un profilo di lettore debole e anche i ragazzi di 11-14 anni.
A fronte di un profilo di lettore polarizzato prevalentemente sulla lettura di pochi libri, c’è comunque da osservare come nell’arco di 22 anni si sia registrato un lieve aumento del numero di libri letti in un anno; questo numero passa, infatti, da 6,3 del 2000 a 7,4 del 2022. Parallelamente, la quota di lettori forti aumenta di 4,3 punti percentuali. Tale andamento si è registrato principalmente tra le lettrici (che leggevano in media 6,3 libri in un anno nel 2000 e arrivano a 7,9 nel 2022) e tra i lettori di 60 anni e più, passati da 7,2 libri nel 2000 a 9 nel 2022.
L’analisi per fasce di età mette in evidenza nel 2022 una quota maggiore di lettori tra i più giovani (fino a 24 anni), con punte più elevate specialmente tra gli 11 e i 14 anni (57,1%), per quanto tra i giovanissimi la lettura complessiva non superi i tre libri l’anno per un lettore su due. A partire dai 25 anni di età l’abitudine alla lettura diminuisce, sebbene tra la popolazione di 55-59 anni si osservi un andamento nuovamente crescente, che regredisce però tra la popolazione ultra-sessantaquattrenne.
In assoluto, il pubblico più affezionato alla lettura è rappresentato dalle ragazze di 11-24 anni, tra le quali circa sei su dieci hanno letto almeno un libro nell’anno. La quota di lettrici scende sotto la media nazionale tra i 45-54 anni e dopo i 60, mentre per gli uomini è sempre inferiore al valor medio nazionale a partire dai 35 anni.
A partire dal 2010 l’analisi evidenzia, per quasi tutte le fasce di età, una diminuzione della quota di lettori negli anni successivi. Puntando l’attenzione sui giovani, si assiste a una decisa contrazione di lettori tra il 2010 e il 2016. Dopo il 2010 si assiste a una diminuzione importante di lettori anche tra gli adulti di 45 anni e più. Gli anziani dai 65anni in su mostrano una crescita di lettori tra il 2010 e il 2016 e una sostanziale stabilità negli anni a seguire. Su tale componente della popolazione pesa progressivamente la presenza di generazioni sempre più istruite e in migliore condizione di salute di un tempo.
L’abitudine alla lettura è più diffusa nelle regioni del Centro-Nord: nel 2022, ha letto almeno un libro il 46,3% delle persone residenti nel Nord-Ovest, il 45,8% di quelle del Nord-Est e il 42,4% di chi vive nel Centro. Al Sud la quota di lettori è del 27,9% mentre nelle Isole la realtà è molto differenziata tra la Sicilia (24%) e la Sardegna (40%).
Considerando l’ampiezza demografica dei comuni, l’abitudine alla lettura è molto più diffusa centri delle aree metropolitane, dove nel 2022 si dichiara lettore quasi la metà degli abitanti (47,8%). La quota scende al 36,3% nei Comuni con meno di 2mila abitanti. Tale divario potrebbe spiegarsi con una maggiore presenza di librerie e biblioteche nei centri di grandi dimensioni.
Anche il livello di istruzione rappresenta un elemento discriminante per le abitudini di lettura: tra le persone con un’età pari o superiore ai 25 anni, legge libri il 68,9% dei laureati, il 43,2% dei diplomati e solo il 17,1% di chi possiede al massimo la licenza media.
Sempre l’anno scorso, il 10,2% della popolazione italiana si è recata in biblioteca almeno una volta, dato superiore rispetto al 7,4% del 2021, ma ancora distante dal 15,3% del 2019. I giovani e i giovanissimi tra 6 e 24 anni sono i frequentatori più assidui, con una quota più che doppia rispetto al resto della popolazione.
Nel 2022, la quota di persone laureate che si è recata in biblioteca è di oltre sei volte superiore rispetto a quella di chi possiede al massimo la licenza media (16,8% contro 2,6%) ed è più di due volte superiore rispetto a quella di chi ha conseguito il diploma superiore (7,5%).
Nel complesso, le attività più diffuse tra gli utenti delle biblioteche sono “prendere libri in prestito” (57,6%), “leggere o studiare” (37,2%) e “raccogliere informazioni” (22,2%).
Tuttavia, i motivi della fruizione si diversificano ampiamente in base all’età. L’attività del prendere libri in prestito è svolta con prevalenza più alta dai giovani utenti fino a 14 anni e dagli anziani di 65-74 anni (circa 7 su 10). Al contrario, si recano in biblioteca per leggere o studiare prevalentemente i giovani tra 15 e 34 anni.</p