È triplicato il numero delle cantine italiane che presentano un’offerta di servizi per i viaggiatori eno-appassionati sempre più ricca e diversificata di esperienze appaganti e immersive. E determinante in questa crescita del settore enoturistico è il ruolo delle donne.
Lo ha rilevato l’indagine realizzata da Nomisma-Wine Monitor per Movimento Turismo del Vino, Città del Vino, Donne del Vino e La Puglia in Più, studio che, però, ha fatto emergere anche criticità all’interno di questo segmento, comunque in forte accelerazione.
La ricerca di Nomisma-Wine Monitor, che ha preso in esame 265 cantine e 145 comuni di distretti enologici, è la più estesa mai realizzata in Italia e fotografa un settore che registra un aumento significativo sia nel numero delle cantine sia nelle tipologie delle esperienze offerte.
“La tipologia di cantina turistica più diffusa in Italia è quella piccola e familiare (39% del totale), particolarmente presente in Campania, Puglia e Umbria. Seguono le cantine con rilevanza storica o architettonica (14%) che hanno una diffusione più alta in Veneto e in Piemonte. Le imprese con marchio famoso o storico sono il 12% del totale e sono particolarmente diffuse in Veneto e Sicilia. Piemonte, Toscana, Friuli e Sicilia si caratterizzano invece per imprese del vino con particolari bellezze paesaggistiche e naturalistiche (11%) mentre in Puglia e in Umbria è più alta la quota di cantine ben organizzate per l’incoming” ha commentato Roberta Gabrielli, di Nomisma.
Nel complesso, aumentano e si evolvono rispetto al passato le esperienze offerte in cantina, che coinvolgono il benessere e il relax dei visitatori; per esempio, con una maggiore dotazione di aree verdi, la ristorazione, con proposte di pranzo e degustazioni, gli aspetti culturali (mostre, corsi, visite guidate nei luoghi vicini), lo sport (itinerari in vigna, tour in bici, jogging) e quelli formativi/esperienziali (eventi legati al vino, wine wedding).
L’indagine Nomisma ha acceso i riflettori su un aspetto importante, che riguarda il ruolo delle donne nell’offerta e nella domanda eno-turistica. Infatti, benché le cantine turistiche italiane siano dirette soprattutto da uomini (55%), il managementdella wine hospitality è soprattutto femminile (73%). “La wine hospitality delle Donne del Vino – ha sottolineato Roberta Gabrielli – si differenzia per una maggiore diversificazione dell’offerta: non solo vino, ma anche attività legate al benessere, alla ristorazione (28%) e ai corsi di cucina (40%), alla ricettività (36%), allo sport (piscine 15%) e all’organizzazione di visite a luoghi limitrofi o di collegamento a eventi culturali (50%). In altre parole, le donne stanno efficacemente trasformando l’attrattiva vino in una proposta di soggiorno di uno o più giorni, con attività legate all’arricchimento culturale e alla rigenerazione che ha origine nella natura”.
Il report Nomisma-Wine Monitor ha tuttavia evidenziato anche alcune criticità. In particolare, il 44% delle cantine sono lontane dai circuiti turistici o enoturistici, problema particolarmente evidente in Friuli-Venezia Giulia, Umbria e Campania.
Inoltre, la metà delle cantine chiude al pubblico nel fine settimana e nei giorni festivi, chiusura che sovente riguarda anche molti uffici turistici: questo costituisce un serio problema dal momento che i flussi dei visitatori sono invece solitamente concentrati nei giorni di festa e durante il week end.
Un terzo aspetto problematico per le cantine turistiche riguarda poi la ricerca del personale: nel biennio 2021-2022, tre cantine su quattro hanno riscontrato difficoltà a trovare figure addette all’accoglienza turistica, in particolare in Veneto, Sicilia, Friuli-Venezia Giulia, Puglia, Piemonte e Umbria”.
La ricerca si è infine soffermata sulle sinergie per lo sviluppo futuro del settore e ha approfondito l’identità delle Città del Vino, il network che promuove e valorizza il vino e la sua cultura per creare progetti condivisi e strategie di marketing turistico a livello nazionale ed europeo.
Per i 145 sindaci intervistati per l’indagine di Nomisma, infatti, essere Città del Vino significa promuovere e valorizzare il vino e la sua cultura (per il 76%); essere all’interno di una rete, di un progetto condiviso per poter creare strategie di marketing turistico (65%); avere una capacità di raccontare e di creare occasioni di promozione del territorio, dei suoi prodotti e delle sue aziende (48%).
Il Rapporto evidenzia anche gli ambiti in cui i Comuni possono migliorare per favorire l’enoturismo: potenziamento degli uffici di informazione turistica e loro apertura nei giorni festivi; sostegno alla formazione del personale anche per gli uffici pubblici in materia enoturistica; dotazione di strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale; maggiore condivisione delle collaborazioni e fare sempre più rete.
Camillo Venesio, Amministratore Delegato di Banca del Piemonte, premia insieme aWilma Borello, Presidente della Fondazione Venesio EF, i giovani talenti del territorio con borse di studio dal valore di mille euro.
“Cultura e istruzione sono i mattoni con cui costruire insieme il futuro, per questo siamo felici di offrire sostegno concreto ai giovani del territorio soprattutto in un contesto economico come quello attuale. Speriamo che questo riconoscimento aiuti davvero i ragazzi più talentuosi ad inseguire i propri sogni.”
Più imprese di stranieri e meno di italiani. Negli ultimi cinque anni, in Piemonte, le imprese con una prevalenza di soci e/o amministratori nati al di fuori dei confini nazionali sono aumentate di oltre 6.500 (per la precisione), mentre quelle di italiani sono diminuite di 13.226 in Piemonte.
Così, al 31 dicembre scorso, sono risultate 50.258 le imprese di stranieri attive, a fronte delle 375.615 risultate a maggioranza di italiani.
È quanto emerge dai dati del Registro delle Imprese delle Camere di Commercio riferiti al periodo 2018-2022, elaborati da Unioncamere-InfoCamere sulla base di Movimprese, l’analisi statistica sull’andamento della demografia delle imprese in Piemonte e nel resto del nostro Paese.
In termini percentuali, la crescita maggiore delle imprese di stranieri negli ultimi cinque anni in Italia è stata registrata in Valle d’Aosta (+17,9%), dove però la loro quota è limitata al 6,8% del sistema imprenditoriale regionale, mentre in Piemonte l’aumento è risultato del 14,9% e la loro quota pari all’11,8%, superiore esattamente di un punto a quella nazionale.
Nello stesso quinquennio, le imprese di italiani in Piemonte sono diminuite del 3,4%, così che l’intero sistema regionale si è impoverito di 6.710 imprese (-1,6%).
Disaggregando ulteriormente i dati, emergono le variazioni 2022-2018 delle imprese di stranieri nelle singole province piemontesi. Eccole: Alessandria +436 (+10,3%), Asti +266 (+11,3%), Biella -19 (-1,7%), Cuneo +482 (+11,8%), Novara +126 (+3,7%), Torino +5.094 (+19,7%), Verbania +45 (+4,2%), Vercelli +86 (+5,4%).
A livello nazionale, alla fine del 2022, le imprese di stranieri erano quasi 650 mila, poco più del 10% dell’intera base imprenditoriale del Paese (appena sopra i 6 milioni di unità).
Questa stabile presenza si accompagna a un dinamismo anagrafico sconosciuto alle imprese avviate da persone nate in Italia. Negli ultimi cinque anni, infatti, l’imprenditoria straniera ha fatto segnare una crescita cumulata del 7,6% a fronte di un calo del 2,3% delle imprese di nostri connazionali.
In termini assoluti, comunque, queste dinamiche non riescono a compensare la scomparsa di attività italiane: dal 2018 a oggi, in Italia le imprese di stranieri sono aumentate di 45.617 unità mentre le italiane sono diminuite di 126.013 unità, cosicché il totale complessivo della base imprenditoriale del Paese si è ridotto di 80.396 imprese.
Tra i due universi (imprese di stranieri e imprese di italiani) restano ancora profonde differenze strutturali. Tra le prime, la forma largamente prevalente resta ancora quella dell’impresa individuale (74,1%) laddove per le attività degli italiani questa quota da alcuni anni è ormai scesa stabilmente sotto la soglia del 50%.
La seconda modalità organizzativa preferita dalle imprese è quella della società di capitali. Sebbene la loro presenza sia decisamente più numerosa tra le iniziative di italiani (dove superano la quota del 32%) che tra quelle di stranieri (dove si ferma al 18,4%), nel caso di queste ultime i cinque anni alle nostre spalle segnalano una vitalità più che marcata di questa forma d’impresa tra quelle di origine immigrata (+39,1% contro +6,3% delle attività degli italiani nel periodo considerato).
Il confronto settoriale tra i percorsi delle imprese di stranieri e di nostri connazionali nell’ultimo quinquennio mette in evidenza differenze – anche notevoli – tra quello che accade a livello dei singoli comparti produttivi.
L’espansione della base imprenditoriale di origini straniere contrasta una tendenza opposta delle imprese di italiani, riuscendo non solo a compensare le perdite di quest’ultima ma – in taluni casi – anche a far crescere l’intero segmento: come avviene nelle costruzioni (dove le imprese di italiani perdono quasi 12.000 unità e le straniere aumentano di oltre 19.000) o nelle altre attività di servizi (in cui le imprese di italiani si riducono di 1.411 unità mentre le straniere crescono di quasi 6.800).
In altri casi, le imprese di stranieri seguono la tendenza delle imprese di italiani registrando però – nel bene e nel male – performance quasi sempre migliori. Laddove straniere e autoctone crescono, le prime fanno sempre meglio delle seconde, con le uniche eccezioni dei servizi alle imprese e della fornitura di energia.
Quando invece la base imprenditoriale si restringe, le straniere mostrano una resilienza nettamente più marcata: come nel commercio, dove la riduzione delle imprese di italiani è del 6,3% e quella delle imprese straniere del 2,5%.
In altri casi si configura lo schema “a specchio” (con le straniere che aumentano mentre quelle di italiani si riducono) in cui, tuttavia, la dinamica delle straniere non è sufficiente a compensare la contrazione delle altre. È così per l’agricoltura, che, sempre a livello nazionale, nel quinquennio perde complessivamente 28.501 imprese e vede crescere le straniere di sole 3.037 unità (con variazioni del -4,3% delle italiane e +18,2% delle straniere). Ed è così anche per le attività manifatturiere, dove le imprese di italiani perdono 39.985 unità e le straniere ne recuperano appena 1.769.
Mai come quest’anno, la “Giornata della Terra” è “sentita”: discussioni, denunce e riflessioni, coinvolgono veramente una gran parte della popolazione. Non c’è da stupirsi. Cresce di giorno in giorno, infatti, la consapevolezza dell’importanza della salvaguardia e del rispetto dell’ambiente in tutte le sue diverse componenti, a partire dalla terra e dalle acque, fondamentali per la vita nostra e delle generazioni future.
La Giornata della Terra (in inglese Earth Day), solennizzata già da più di 190 Paesi, un mese e un giorno dopo l’equinozio di primavera, quindi il 22 aprile, è nata nel 1962, in seguito alla pubblicazione del libro manifesto ambientalista “Primavera silenziosa” scritto dalla biologa statunitense Rachel Carson e al relativo movimento universitario, per sottolineare la necessità della conservazione delle risorse naturali della Terra.
Da allora, la Giornata della Terra ha continuato a coinvolgere sempre più, anche sotto la spinta dell’accelerazione degli eventi naturali catastrofici (inondazioni, frane, incendi), dalle preoccupanti variazioni del clima, i sempre più lunghi e frequenti periodi di siccità, l’aumento dell’inquinamento e della desertificazione, il surriscaldamento del pianeta e, fra l’altro, il progressivo consumo del suolo.
In Italia, con una media di 19 ettari al giorno e una velocità che supera i 2 metri quadrati al secondo, il consumo di suolo nel 2021 è tornato a crescere, sfiorando i 70 km quadrati di nuove coperture artificiali in un solo anno.
Tali superfici sono sostituite da nuovi edifici, infrastrutture, insediamenti commerciali, logistici, produttivi e di servizio e da altre aree a copertura artificiale, all’interno e all’esterno delle aree urbane esistenti. Una crescita solo in parte compensata dal ripristino di aree naturali, pari, nel 2021, a 5,8 km2, dovuti al passaggio da suolo consumato a suolo non consumato (in genere grazie al recupero di aree di cantiere o di superfici già classificate come consumo di suolo reversibile).
Il cemento ricopre ormai 21.500 km quadrati di suolo nazionale, dei quali 5.400, un territorio grande quanto la Liguria, riguardano i soli edifici, che rappresentano il 25% dell’intero suolo consumato (5.400 Km2).
Questa situazione emerge dal Rapporto 2022 del Snpa (Sistema nazionale protezione dell’ambiente), che fornisce il quadro aggiornato dei processi di trasformazione della copertura del suolo a livello nazionale, comunale e provinciale.
Tra il 2006 e il 2021, l’Italia ha perso 1.153 km quadrati di suolo naturale o seminaturale, con una media di 77 km all’anno, a causa principalmente dell’espansione urbana e delle sue trasformazioni collaterali che, rendendo il suolo impermeabile, oltre all’aumento degli allagamenti e delle ondate di calore, provoca la perdita di aree verdi, di biodiversità e dei servizi ecosistemici, con un danno economico stimato in quasi otto miliardi di euro l’anno.
Il suolo consumato pro capite in Italia, nel 2021, è aumentato di 3,46 metri quadrati per abitante e di 5,46 rispetto al 2019, confermando la tendenza di crescita. Si è passati, infatti, dai circa 349 metri quadrati per abitante nel 2012 ai circa 363 attuali. Tanto che la copertura artificiale del suolo è ormai arrivata al 7,13% (7,02% nel 2015 e 6,76% nel 2006), rispetto alla media Ue del 4,2%.
I valori percentuali più elevati del suolo consumato sono in Lombardia (12,12%), Veneto (11,90%) e Campania (10,49%). Gli incrementi maggiori di consumo di suolo nell’ultimo anno censito sono avvenuti in Lombardia, con 883 ettari in più, Veneto (+684 ettari), Emilia-Romagna (+658), Piemonte (+630) e Puglia (+499).
Invece, Valle d’Aosta, Liguria, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Molise, Basilicata e Calabria sono le regioni che, nel 2021, hanno avuto incrementi di consumo di suolo inferiori ai 100 ettari.
Il consumo di suolo è più intenso nelle aree già molto compromesse. Nelle città a più alta densità, dove gli spazi aperti residui sono spesso molto limitati, sempre nel 2021 si sono persi 27 metri quadrati per ogni ettaro di aree a verde. Tale incremento contribuisce a far diventare sempre più calde le nostre città, con il fenomeno delle isole di calore e la differenza di temperatura estiva tra aree a copertura artificiale densa o diffusa che, rispetto a quelle rurali, raggiunge spesso valori superiori a 3°C nelle città più grandi.
Il Veneto è la regione che ha la maggior superficie di edifici rispetto al numero di abitanti (147 m2/ab), seguita da Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Piemonte, tutte con valori superiori ai 110 m2/ab. I valori più bassi si registrano invece nel Lazio, in Liguria e Campania, rispettivamente con 55, 60 e 65 m2/ab, a fronte di una media nazionale di 91 m2/ab.
Un altro aspetto del consumo di suolo riguarda l’installazione di impianti fotovoltaici a terra. Nel 2021, oltre 17.500 ettari di suolo sono occupati da questo tipo di impianti, in modo particolare in Puglia (6.123 ettari, circa il 35% di tutti gli impianti nazionali), in Emilia-Romagna (1.872) e nel Lazio (1.483). E la transizione ecologica prevede un aumento di questa tipologia di consumo nei prossimi anni, stimato in oltre 50.000 ettari, circa otto volte il consumo di suolo annuale.
Le aree perse in Italia dal 2012 avrebbero garantito la fornitura complessiva di 4,150 milioni di quintali di prodotti agricoli e l’infiltrazione di oltre 360 milioni di metri cubi di acqua piovana, che ora, scorrendo in superficie, non sono più disponibili per la ricarica delle falde e aggravano la pericolosità idraulica dei nostri territori.
Una valutazione degli scenari di trasformazione del territorio italiano, nel caso in cui la velocità di trasformazione dovesse confermarsi pari a quella attuale anche nei prossimi anni, porta a stimare il nuovo consumo di suolo in 1.836 km2 tra il 2021 e il 2050. Se invece si dovesse tornare alla velocità media registrata nel periodo 2006-2012, si supererebbero i 3.000 km2.
Nel caso in cui si attuasse una progressiva riduzione della velocità di trasformazione, ipotizzata nel 15% ogni triennio, si avrebbe un incremento delle aree artificiali di oltre 800 km2, prima dell’azzeramento al 2050.
Sono tutti valori. Comunque, molto lontani dagli obiettivi di sostenibilità dell’Agenda 2030, che, sulla base delle attuali previsioni demografiche, imporrebbero un saldo negativo del consumo di suolo. Ciò significa che, a partire dal 2030, la “sostenibilità” dello sviluppo richiederebbe un aumento netto delle aree naturali di 269 km2 o addirittura di 888 km2.
Comunque, tutto il Pianeta è soggetto a fenomeni di degrado del territorio e del suolo rapidamente crescenti, che minano la fornitura dei servizi ecosistemici, sui cui si fonda la vita umana e che è il risultato di azioni di sovrasfruttamento indotte dall’uomo, causando il declino della sua fertilità, della biodiversità che ospita, con evidenti danni complessivi anche alla salute umana, azioni i cui impatti sono fortemente inaspriti dai cambiamenti climatici.
In Italia, nel 2022, il tasso di diffusione di internet è risultato pari al 91,4%
Forte accelerazione di Internet in Italia, ormai quasi alla pari con l’Europa. Come documentato dall’Istat, nel 2022 è risultato pari al 91,4% il tasso di diffusione di Internet tra le famiglie residenti nel nostro Paese e con almeno un componente di 16-74 anni, valore in linea con la media Ue27 (92,5%). L’Italia, quindi, negli ultimi tre anni ha recuperato il gap che la caratterizzava in passato. Però, se si allarga l’analisi a tutte le famiglie residenti sul territorio italiano la quota di quelle che dispone di un accesso a Internet scende all’83,1%. Nelle famiglie composte da soli anziani, infatti, l’Istat ha rilevato una minore diffusione: solo una su due (49,8%) dispone di un accesso, a fronte del 98,8% di quelle in cui è presente almeno un minore e del 93,4% di quelle senza minori ma i cui componenti non siano solo anziani.
L’analisi territoriale conferma il divario Nord-Sud: il Trentino-Alto Adige (88,9%) e la Lombardia (86,1%) sono le regioni con la percentuale più alta di famiglie connesse a Internet; all’opposto si collocano la Puglia (78,2%), la Basilicata (77,5%) e la Calabria (73,6%). La maggior parte delle famiglie senza accesso a Internet da casa indica come principale motivo la mancanza di capacità (59,9%) e il 21,5% non considera Internet uno strumento utile e interessante. Seguono motivazioni di ordine economico, legate all’alto costo dei collegamenti o degli strumenti necessari (11,9%), mentre il 7,8% non naviga in Rete da casa perché almeno un componente della famiglia accede a Internet da un altro luogo.
Nel 2022, il 77,5% della popolazione di sei anni e più ha usato Internet nei tre mesi precedenti l’intervista dell’Istat e il 65,1% si connette giornalmente. In particolare, oltre il 90% delle persone tra 11 e 54 anni si è connessa alla Rete negli ultimi tre mesi, mentre scende invece al 57,2% tra le persone di 65-74 anni e arriva al 20,9% tra le persone di 75 anni e più. Tra il 2020 e il 2022, l’uso della Rete è aumentato di sette punti. Il titolo di studio continua a essere un fattore discriminante, anche perché associato positivamente con l’età: naviga sul web l’88,6% di chi ha un diploma superiore contro il 74,9% di chi ha conseguito la licenza media. Tra gli occupati, le differenze tra dirigenti, imprenditori e liberi professionisti da un lato e operai dall’altro, negli anni si sono gradualmente attenuate (96% contro 88,2%).
Anche nel 2022 si conferma un uso della Rete prevalentemente rivolto all’utilizzo dei servizi di comunicazione. Negli ultimi tre mesi su dieci internauti di età superiore ai sei anni sette hanno usato servizi di messaggeria istantanea (68,9%), il 60,1% ha effettuato chiamate sul web e il 59,2% ha utilizzato la posta elettronica. Diffuso anche l’utilizzo della Rete per guardare video da servizi di condivisione come, ad esempio, YouTube (55,3%), ascoltare ascolta la musica sul web (45,6%) e partecipare ai social network (45,1%). Il 44,9% utilizza il web per leggere giornali, informazioni e riviste online. Il 46,1% delle persone di 14 anni e più si è rivolto alla Rete negli ultimi tre mesi per avere informazioni sulla salute.
Inoltre, il 25,1% ha preso un appuntamento con un medico tramite un sito web o una app, il 24% ha consultato il proprio fascicolo sanitario o la propria cartella clinica online e il 23% ha utilizzato il web per accedere ad altri servizi sanitari invece di recarsi personalmente dal medico o in ospedale. Un particolare aspetto dell’uso di Internet nella vita quotidiana è il commercio elettronico. Nel 2022 il 48,2% della popolazione di 14 anni e più ha usato Internet nei 12 mesi precedenti l’intervista per fare acquisti online.
Sono più propensi a comprare online gli uomini (52,4%, il 44,4% delle donne), i residenti nel Nord (52,8%, il 40,3% del Mezzogiorno) e, soprattutto, i giovani tra i 20 e i 24 anni (75,7%).Oltre alla frequenza con cui i cittadini ricorrono al commercio elettronico, l’indagine Istat ha rilevato anche la tipologia di beni e servizi acquistati per uso privato via Internet negli ultimi tre mesi: tra gli individui di 14 anni e più, è più diffuso l’acquisto di capi di abbigliamento, scarpe o accessori (19,4%), gli articoli per la casa, elettrodomestici esclusi (10,3%), i film o le serie in streaming o download (8,5%).
Infine, il 45,4% delle persone di 14 anni e più che hanno utilizzato Internet negli ultimi 12 mesi ha scaricato o stampato moduli dai siti web della Pubblica amministrazione (Pa), il 40,3%, ha preso un appuntamento mediante un sito web o una app della Pa (fra l’altro, per ambulatori, biblioteche o con funzionari pubblici) e il 27,1% ha consultato i siti web della Pa per avere informazioni su servizi, benefici, diritti, leggi, orari di apertura. Il 11,2% dichiara di aver fatto online l’iscrizione a scuola o università, l’11,4% di aver fatto online la richiesta di certificati o documenti (nascita, residenza, carta d’identità) e il 9,8% ha richiesto prestazioni di previdenza sociale (pensione o assegno unico).
Ma più di uno su tre ha riscontrato problemi nell’uso di app o siti della Pa o servizi pubblici.