La Repubblica Torino intervista Camillo Venesio, il nostro Amministratore Delegato e Direttore Generale, che ci offre un racconto dal taglio più personale della storia della banca come misura della vita, con la sua etica e la sua tradizione, ma anche come storia di una famiglia con le radici nel vecchio Piemonte. Da Casale a Torino, l’avventura di un secolo.
“La mia filosofia di vita è sempre stata un disincantato pragmatismo sorretto da solidi ideali. In questo ho espresso la mia ribellione”.
Per un’impresa è di fondamentale importanza scegliere in primo luogo quale sarà il marchio da utilizzare al momento dell’apertura dell’attività commerciale. Contemporaneamente, è importante scegliere un marchio che sia in grado di svolgere la sua funzione di indicazione dell’origine commerciale dei prodotti o servizi che si ha intenzione di offrire al pubblico. Naturalmente, per poter svolgere questa funzione, è necessario che il marchio sia distintivo, ossia che il pubblico, al momento di effettuare e ripetere un acquisto, sia in grado di riconoscerlo e/o di ricordarlo.
Gli strumenti legali a disposizione per proteggere un marchio
Per riuscire ad ottenere detto risultato è altresì necessario che lo stesso non venga confuso dal pubblico con altri marchi uguali o simili presenti sul mercato. Pertanto, è molto importante controllare ed evitare che vengano utilizzati sul mercato, da altre imprese, marchi identici o simili al nostro che possano creare un rischio di confusione nel consumatore. Proprio per evitare questo rischio di confusione il legislatore italiano ha concesso al titolare del marchio un diritto di esclusiva sullo stesso dandogli la possibilità di proteggerlo attraverso strumenti legali. Il nostro ordinamento prevede due diverse forme di protezione a seconda che il marchio in questione sia registrato o meno.
Va chiarito in primo luogo che per far valere il diritto di esclusiva, non è necessario che il marchio sia registrato, in quanto esiste una previsione normativa che permette la tutela del cosiddetto “marchio di fatto”. Tuttavia, l’estensione della protezione di questo segno distintivo è alquanto esigua e, soprattutto, è spesso molto difficile provarne l’esistenza.
Definizione del marchio di fatto
Ma cosa si intende con tale termine? Un marchio di fatto è un segno distintivo che viene utilizzato nel mercato da un’azienda per commercializzare prodotti o servizi ma che, tuttavia, non è stato registrato. Questo tipo di tutela viene principalmente usata da imprenditori che non sono a conoscenza della possibilità di tutelare il proprio marchio con la registrazione o che non ritengono conveniente introdurre un costo aggiuntivo nel proprio budget d’impresa. Tuttavia, a tal proposito va detto che i costi per la registrazione di un marchio sono relativamente esigui, soprattutto se comparati ai vantaggi che tale registrazione offre in termini di tutela.
Tutela giuridica del marchio non registrato
Come detto in precedenza, l’ordinamento italiano prevede una tutela specifica per questo tipo di segno distintivo: quest’ultima è rintracciabile negli articoli 2571 del Codice Civile e 12 del Codice di Proprietà Intellettuale a condizione, però, che lo stesso abbia carattere distintivo e che possieda i requisiti essenziali della novità ed originalità propri di quello registrato. Da tali articoli si possono estrapolare alcuni concetti fondamentali che, di fatto, ci permettono di capire perché la protezione di questi segni distintivi sia piuttosto limitata e, molto spesso, difficile da provare. Detti concetti sono appunto il preuso del marchio non registrato e l’ambito territoriale entro il quale il suddetto segno è stato utilizzato.
Ebbene, a differenza di un marchio registrato che gode di una presunzione assoluta di titolarità, che si ottiene all’atto della registrazione, nonché di una protezione estesa su tutto il territorio nazionale, per far valere il diritto di anteriorità di un marchio di fatto è necessario provare l’eventuale notorietà a livello nazionale o, quantomeno, il suo uso effettivo all’interno di un determinato ambito territoriale.
L’ambito territoriale della protezione
A proposito di protezione, quest’ultima, come detto, opererà solo qualora il titolare del marchio non registrato riesca a dimostrarne la notorietà presso il pubblico a livello nazionale oppure che lo stesso sia stato effettivamente utilizzato, ovvero sia notoriamente conosciuto in un determinato territorio.
Infatti, questo tipo di segno distintivo può essere posto alla base di un’azione di annullamento di un marchio successivamente registrato solo qualora abbia raggiunto una notorietà a livello nazionale e che quindi sia immediatamente riconoscibile dal pubblico di riferimento. Qualora, invece, la sua notorietà sia solo ed esclusivamente locale (in una sola provincia, ad esempio), non sarà possibile impedire la registrazione di un marchio successivo identico o simile ma ci sarà solo la possibilità per il titolare del segno non registrato di continuare ad usarlo nel medesimo ambito locale.
Facciamo un esempio: se il titolare di un’impresa usa il suo marchio non registrato solo nella provincia di La Spezia, egli avrà diritto di continuare ad utilizzare il suo marchio solo per quella specifica provincia e non potrà impedire che un terzo usi un marchio uguale al suo in altri territori.
Preuso: che cos’è?
Altra differenza sostanziale rispetto al marchio registrato è che, mentre per quest’ultimo l’ordinamento concede diritti di esclusiva a prescindere dal suo utilizzo nei primi cinque anni dalla registrazione, per il marchio non registrato si potrà impedire la registrazione di marchi successivi solo se si riesce a provare un utilizzo previo tanto diffuso da aver ottenuto una notorietà del segno a livello nazionale. Va detto infatti, anche sulla base delle ultime sentenze al riguardo, che è molto difficile dimostrare una notorietà nazionale, che richiederebbe la presentazione di un ingente numero di prove quali, ad esempio, fatture, cataloghi, documenti contabili e articoli di giornale dove viene citato il marchio. Nella maggior parte dei casi il titolare non è in grado di collezionare una tale mole di materiale probatorio ma è in grado di dimostrare, al massimo, un uso effettivo o una notorietà a livello locale. Questo comporta che il titolare del marchio potrà solo continuare ad usarlo nei limiti territoriali senza tuttavia poter impedire la registrazione di marchi identici.
Prevenire è meglio che curare
Insomma, alla luce delle problematiche illustrate nel corso di questo articolo e legate al marchio di fatto (e, dunque, alla tutela di un marchio non registrato), appare chiaro quanto sia consigliabile alle imprese che intendono affacciarsi sul mercato di registrare il proprio marchio o a livello nazionale presso l’UIBM (Ufficio italiano brevetti e marchi) o a livello europeo presso l’EUIPO (Ufficio Europeo per la Proprietà Intellettuale), nel caso vi sia l’intenzione di espandersi anche a livello dell’Unione Europea.
Milano resta saldamente in testa alla classifica italiana per valore aggiunto pro-capite da oltre vent’anni, raggiungendo nel 2022 quota 55.483 euro. Un valore tre volte e mezzo superiore a quello generato da Agrigento (15.665 euro), fanalino di coda e quasi doppio quello della media nazionale (29.703).
In Piemonte, in testa per valore aggiunto pro-capite l’anno scorso si è piazzata la provincia di Cuneo con 33.743,26 euro, cifra corrispondente al ventesimo posto nazionale. La Granda ha preceduto anche Torino (32.339,68 euro), al 26° posto tra le province italiane e il Novarese (31.053,36 euro), al 35°.
Ed ecco i piazzamenti delle altre piemontesi: Vercelli (29.858,51 euro) 38.a, Alessandria (28.673,86) 46.a, Biella (26.745,64 euro) 57.a, Asti (25.968,39 euro) 59.a, Verbania (23.948,45 euro), 72.a e perciò cenerentola regionale.
Tuttavia, complice l’incremento dei prezzi delle materie prime, è stata Potenza la provincia che ha corso di più nel 2022 rispetto al 2021, evidenziando un incremento del 16,4% del valore aggiunto contro il 6,9% medio nazionale a prezzi correnti.
A livello settoriale crescite a due cifre si rilevano in particolare in corrispondenza delle Costruzioni (10,4%), anche per effetto del superbonus 110%, e dei servizi (+10,6%), mentre l’industria in senso stretto cresce del 9,5%.
Guardando al pre-pandemia, solo a Firenze il valore aggiunto prodotto resta ancora sotto i livelli precedenti al Covid, segnando un calo del 4,7% nel 2022 rispetto al 2019, ma è in crescita dell’8,8% rispetto al 2021. Mentre, allungando l’orizzonte all’ultimo decennio, tra il 2012 e il 2022, a mostrare maggiore vigore sono soprattutto le province più “giovani”, più “industrializzate”, più strutturate e orientate all’export.
È quanto emerge dall’analisi realizzata dal Centro Studi Tagliacarne e Unioncamere sul valore aggiunto provinciale del 2022, che è una delle tradizionali attività di misurazione dell’economia dei territori realizzata dal sistema camerale.
L’articolazione geografica del valore aggiunto mette in risalto le differenze ancora esistenti in termini di valore aggiunto prodotto tra il Nord e il Sud del Paese.
La classifica del valore aggiunto pro-capite 2022 è capitanata, infatti, da ben tre province del Nord con Milano in testa (55.483 euro), seguita da Bolzano (49.177) e Bologna (41.737). E bisogna scorrere fino al 47° posto per trovare la prima provincia appartenente al Mezzogiorno. Mentre le ultime 32 posizioni sono tutte occupate da province meridionali.
Ma in soli quattro anni, tra il 2019 e il 2022, diverse province del Sud si sono distinte per avere fatto sensibili passi avanti. Tra le prime dieci province che mostrano avanzamenti più significativi Potenza è migliorata di 20 posizioni, Brindisi e Matera di 7. Ed è ancora Potenza a essere schizzata al primo posto per crescita del valore aggiunto prodotto tra il 2021 e il 2022 con un + 16,4%, seguita nella top cinque da Bolzano (+12,4%), Trento (+11,8%), Matera (+11,5%) e Valle d’Aosta/Vallée (10,9%).
A mettere il turno al Mezzogiorno sono state soprattutto le costruzioni, che qui hanno registrato una crescita del 12,3% nel 2022 sul 2021, a fronte di un incremento medio nazionale del 10,4% anche per effetto del superbonus 110%.
Lo sprint delle costruzioni nel Sud è confermato anche guardando agli ultimi quattro anni. Tra il 2019 e il 2022, infatti, è ancora il Mezzogiorno ad avere mostrato uno scatto in più nell’edilizia crescendo del 43,9% con ben 34 delle 38 province meridionali che hanno evidenziato performance superiori all’incremento settoriale medio del 35,6% nell’intera Penisola.
Comunque, la crescita del settore Servizi è tra i principali protagonisti del processo di recupero del 2022, con un incremento del 10,6% a cui ha contribuito in maniera determinante il ritorno dei flussi turistici pre-pandemici. Tanto è vero che aumenti maggiori del valore aggiunto si registrano proprio in quelle aree in cui il turismo rappresenta una risorsa importante per il complesso del territorio.
A dimostrarlo sono gli andamenti del Trentino-Alto Adige, al top della classifica regionale per crescita del valore aggiunto con +14,9%, seguito dalla Valle d’Aosta (+13,2%) e dal Veneto (+12,4%).
Tra il 2012 e il 2022 il valore aggiunto italiano è aumentato del 20,1%, ma alcune province hanno performato meglio di altre. Età media della popolazione, livello di industrializzazione, dimensioni delle imprese, vocazione all’export sembrano abbiano contribuito significativamente a fare la differenza sui territori.
Numeri alla mano, le province con un’età media della popolazione più bassa crescono del 20,7% contro il 18,9% di quelle “più anziane”, con picchi di incremento del valore aggiunto prodotto a Matera (+39,2%), Bolzano (+35,2%), Vicenza (+31,9%), Parma (+31,8%) e Treviso (+30,3%).
Più in generale, otto delle 10 province maggiormente cresciute fra 2012 e 2022 si collocano tra le province più giovani d’Italia.
Aumenti più elevati si registrano anche nelle province a maggior incidenza di valore aggiunto industriale (+22,6% contro +17,7%), con Potenza (37,1%) al top della classifica. Inoltre, le province con una maggiore presenza di imprese grandi e una più spiccata vocazione all’export sono cresciute in ambo i casi mediamente del 21,9% – contro poco più del +15% di quelle con una minore presenza di aziende più strutturate e una più bassa propensione a esportare- con punte a Bolzano (+35,2%), Vicenza (31,9%) e Parma (31,8%).
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In fase di registrazione di un marchio è bene chiarire con attenzione diversi elementi. In particolare, è necessario definire con estrema precisione quale sia l’espressione o il logo oggetto di registrazione, le categorie merceologiche (di prodotti o servizi) per la quali si chiede tutela e soprattutto gli Stati nei quali verrà effettuato il deposito. Non è un caso: quando un’impresa si affaccia sul mercato internazionale e inizia a esportare i propri prodotti o servizi in territorio diversi dall’Italia, deve necessariamente provvedere alla tutela dei suoi segni distintivi in tali mercati.
La territorialità del marchio
I diritti di proprietà intellettuale rispondono al cosiddetto principio di territorialità: il diritto di marchio e la sua tutela sono delimitati entro il territorio dello Stato in cui il marchio è stato registrato. Ciò significa che, in linea generale, negli Stati ove non si è effettuata una registrazione, chiunque può usare il marchio senza che ciò possa essere vietato.
È chiaro come una simile evenienza sia estremamente pericolosa per il titolare di un marchio, che si trova esposto al rischio di un utilizzo dei propri marchi oltre confine da soggetti terzi, senza avere alcun controllo. La strategia di internazionalizzazione è quindi essenziale per la tutela del proprio marchio oltre i confini nazionali.
Le tipologie di marchio registrato
A seconda dell’estensione territoriale, esistono diverse tipologie di marchi registrati:
1.Marchio nazionale
Registrato, per quanto riguarda l’Italia, presso l’UIBM (Ufficio Italiano Brevetti e Marchi) e con riferimento ad altri Paesi, presso i relativi uffici di proprietà intellettuale. Il marchio nazionale ha validità e riceve tutela per il solo territorio italiano nel quale è stato depositato e registrato. Il costo del deposito di un marchio nazionale è variabile a seconda del paese di interesse (Francia, Germania, ecc…).
2.Marchio europeo
Registrato presso l’EUIPO (European Union Intellectual Property Office) con validità e tutela nel territorio dell’Unione Europea. Il regolamento (UE) 2017/1001 è entrato in vigore il 1° ottobre 2017 e ha sostituito il regolamento comunitario n. 207/2009: esso consente di ottenere il deposito e la registrazione di un marchio unico che ha efficacia in tutto il territorio europeo, evitando la frammentazione tra Stati. Il vantaggio della registrazione di un marchio europeo è quindi straordinario, tenendo anche conto che il costo della sua registrazione è decisamente inferiore alla somma delle tasse delle singole registrazioni nei 28 Stati dell’Unione Europea. Il marchio europeo ha una durata di 10 anni dalla data di deposito ed è rinnovabile senza limiti temporali.
3.Marchio internazionale
Non esiste purtroppo un marchio “mondiale”, inteso come un titolo unico che conferisca protezione in tutti gli Stati del mondo: ciò è dovuto al fatto che molti di essi non hanno mai acconsentito ad una limitazione della propria sovranità per aderire ad accordi internazionali. Esiste però una procedura gestita dal WIPO (World Intellectual Property Organization, con sede a Ginevra) che consente, mediante un’unica domanda internazionale, di depositare un marchio in numerosissimi Paesi aderenti al cosiddetto sistema di Madrid. La presentazione della domanda di registrazione di marchio internazionale va effettuata presso l’ufficio nazionale del paese in cui è stato depositato o registrato il proprio marchio nazionale (Italia, o presso l’EUIPO se la prima domanda è relativa a un marchio europeo). Tali uffici provvederanno ad inoltrare la domanda al WIPO. In sede di domanda di marchio internazionale occorre designare gli Stati membri nei quali si intende ottenere la protezione e la registrazione del marchio internazionale. In poche parole, quindi, tramite la registrazione del marchio internazionale si possono ottenere singoli depositi nazionali per tanti Stati nel mondo quanti ne sono stati designati dal titolare del marchio, attraverso una procedura più semplice e meno costosa rispetto a depositi svincolati dal predetto procedimento.
Quanto costa registrare un marchio a livello internazionale? Dipende! Dipende da quanti sono gli Stati che il titolare del marchio intende designare per la registrazione: ogni Stato richiede la propria tassa di registrazione. Il rinnovo del marchio internazionale avviene mediante la medesima procedura semplificata che si segue per la registrazione e a costi sostanzialmente analoghi.
La strategia di internazionalizzazione
Ovviamente la scelta degli Stati presso i quali depositare e registrare il proprio marchio deve essere frutto di una strategia concordata con il proprio consulente marchi. È chiaro che non sempre può essere conveniente investire ingenti risorse in una registrazione internazionale quando non si è sicuri del successo di un prodotto o di un servizio sui mercati esteri.
Occorre trovare un giusto equilibrio tra gli investimenti e l’ampiezza di tutela. In questo senso, la normativa viene quindi incontro alle aziende che vogliono internazionalizzarsi con l’istituto della priorità: quest’ultima concede il diritto ad un soggetto di depositare il marchio in un singolo Stato (o come marchio europeo) con la possibilità di estensione, entro 6 mesi, ad altri Stati a scelta o addirittura di estensione come marchio internazionale, vantando anche per i nuovi depositi efficacia dalla data di deposito del primo marchio.
In questo modo viene concesso un termine di 6 mesi all’interessato per pianificare una strategia di estensione della propria registrazione ad altri paesi, beneficiando della retrodatazione dei successivi depositi. Non occorre quindi decidere tutto subito: poniamo che un’azienda italiana attiva nel settore della moda intenda lanciare sul mercato una nuova linea di abbigliamento. Essa potrà limitarsi a depositare il marchio in Italia attendendo sei mesi per l’estensione in altri paesi. La priorità di deposito consente di riservarsi un periodo di tempo per verificare il successo di un prodotto ed eventualmente estendere il deposito ad altri Stati.
Investire nell’internazionalizzazione
Ma è bene fare attenzione: solo un un consulente esperto è in grado di accompagnare un’azienda nell’internazionalizzazione del proprio brand attraverso un percorso graduale di espansione che tenga conto di un equilibrio tra esigenze di tutela internazionale e contenimento dei costi.
Mai così poco pane sulle tavole degli italiani. Il suo consumo medio è crollato al minimo storico di 80 grammi a testa al giorno, il 33% in meno in poco più di un decennio.
È quanto emerge da una analisi della Coldiretti, secondo la quale il calo degli acquisti di pane ha avuto una accelerazione negli ultimi anni: ancora nel 2010 il consumo quotidiano medio era di 120 grammi a testa, a fronte dei 180 grammi nel 2000, i 197 nel 1990 e i 230 nel 1980.
Valori, fra l’altro, molto lontani da quelli dell’Unità d’Italia, nel 1861, quando ogni persona mangiava mediamente ben 1,1 chili di pane al giorno.
Con il taglio dei consumi – sottolinea la Coldiretti – si è verificata una svolta anche nelle abitudini a tavola.
Sale l’interesse per il pane biologico e, con l’aumento dei disturbi dell’alimentazione, sono nati nuovi prodotti senza glutine e a base di cereali alternativi al frumento.
Sempre più apprezzate, infatti, sono le varianti salutistiche e ad alto valore nutrizionale: a lunga lievitazione, senza grassi, con poco sale, integrale, a km 0. E ci sono anche 8,5 milioni di italiani che preparano il pane in casa, magari utilizzando farine di cereali antichi.
Il pane artigianale, che rappresenta l’84% del mercato (la spesa familiare in Italia per il solo pane ammonta a 6,7 miliardi all’anno) continua a essere preferito, anche se il suo consumo è in costante calo.
E il calo dei consumi mette in pericolo la sopravvivenza dei pani della tradizione popolare italiana, tra i quali ben sei sono stati addirittura riconosciuti dall’Unione Europea. Si tratta della Coppia ferrarese (Igp, Emilia Romagna), Pagnotta del Dittaino (Dop, Sicilia), Pane casareccio di Genzano (Igp, Lazio), Pane di Altamura (Dop Puglia), Pane di Matera (Igp, Basilicata) e Pane Toscano (Dop, Toscana).
Sono comunque centinaia le specialità tradizionali censite dalle diverse regioni.
Si va dal “Pane cafone” della Campania alla Biga servolana del Friuli-Venezia Giulia, formata da due pezzi di pasta uniti insieme in modo da formare un panino a forma di sferette unite; dal pane di Triora, il paese delle streghe in Liguria, che viene cotto per circa un’ora su delle tavole di legno cosparse di crusca, al pane di Chiaserna delle Marche, dal sapore leggermente acidulo.
In Lombardia, accanto alla classica michetta milanese, c’è pure il pane alla zucca di Cremona, impastato con una purea di zucca cotta al vapore; mentre dalla Val D’Aosta arriva il “Pan ner”, ottenuto da un mix di segale e frumento e dal Piemonte la “Lingua di Suocera”, nel cui nome è sin troppo evidente il riferimento alla lunghezza della lingua delle suocere.
Dall’Abruzzo viene il pane di grano Bolero, una varietà particolarmente resistente al freddo delle montagne e di alta quota è anche la Puccia pusterese del Trentino-Alto Adige, fatta con pasta madre arricchita da cumino, finocchio e trigonella.
Un simbolo della Sardegna, accanto al noto Carasau, è il pane Pintau, decorato con simboli ancestrali, che ne fanno una vera e propria opera d’arte. E affonda le sue radici nell’antichità anche il pane Rublanum della Calabria. Dal Veneto arriva il pane Bovolo, dalla particolare forma di chiocciola e dal Molise il pane di pregiato grano Senatore Cappelli.
L’aumento dei prezzi e una più diffusa sensibilità ambientale ha portato molti a cercare di ridurre gli sprechi, riutilizzando il pane avanzato per la creazione di ricette prese dalla tradizione contadina: dalla panzanella ai canederli, dal pancotto agli gnocchi di pane.
Pagnotte e panini restano però al terzo posto della classifica dei cibi più gettati nella spazzatura, nonostante che nel 2022 sia diminuita dal 21 al 16% la quota di famiglie che dichiarano di buttarlo.
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