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In risalita i prezzi delle case. In particolare, nel quarto trimestre 2021 l’indice dei prezzi delle abitazioni (Ipab) acquistate dalle famiglie, per fini abitativi o per investimento, è aumentato dello del 4% nei confronti dello stesso periodo del 2020 e dello 0,1% rispetto al terzo trimestre dell’anno scorso. La crescita tendenziale si deve sia ai prezzi delle abitazioni nuove (+5,3%, in accelerazione rispetto al +4% del trimestre precedente), sia ai prezzi delle abitazioni esistenti, che salgono del 3,9%, decelerando lievemente rispetto al terzo trimestre 2021 (era +4,1%).
Questi andamenti si manifestano in un contesto di crescita vivace dei volumi di compravendita; infatti, l’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia delle Entrate per il settore residenziale ha registrato un aumento del 15,9% dei passaggi di proprietà nel quarto trimestre 2021, dopo l’incremento del 21,9% del trimestre precedente.
In media, nel 2021, i prezzi delle abitazioni sono rincarati del 2,5%; in particolare, i prezzi delle case nuove hanno fatto registrare un aumento del 3,8%, mentre è stato del 2,3% quello delle abitazioni esistenti, che pesano per oltre l’80% sull’indice aggregato.
Rispetto alla media del 2010, primo anno per il quale è disponibile la serie storica dell’Ipab, nel 2021 i prezzi delle abitazioni sono però risultati diminuiti del 12,8%, media fra il calo del 19,8% per le abitazioni esistenti e l’incremento del 7,6% per le nuove.
Tornando all’ultima parte dell’anno appena passato, i dati confermano la crescita dei prezzi delle abitazioni su base annua in tutte le ripartizioni geografiche. Il rialzo è particolarmente marcato per il Nord e per il Centro (+4,4 nel Nord-Ovest; +4,7% nel Nord-Est e +5% nel Centro), più contenuto nel Sud e Isole (+1,3%).
Disaggregando ulteriormente i dati, si registrano tassi di crescita positivi dei prezzi delle abitazioni per tutti i grandi comuni per quali viene diffuso l’Ipab. Su base annua, a Milano i prezzi delle case sono aumentati del 6,1%, fra l’altro evidenziando un’accelerazione rispetto al trimestre precedente, quando l’incremento era stato del 3,8%. Segue Roma, dove è stato rilevato un rialzo tendenziale del +5,2% con un’impennata dei prezzi per le abitazioni nuove (+11,2%).
Quanto a Torino, la crescita si è attestata sul 3,1% (in accelerazione dal +1,8% del terzo trimestre 2021) ed è conseguente sia ai prezzi delle abitazioni esistenti (+2,1%) sia, in particolar modo, a quelli delle abitazioni nuove (+8,3%).
Dal confronto poi con il 2020, emerge che a Torino i prezzi delle case l’anno scorso sono aumentati del 2,1% (+0,8% l’anno prima), in funzione soprattutto dei rincari delle abitazioni nuove (da -2,3% a +7,9%), mentre per le abitazioni esistenti si è confermato il tasso di crescita rilevato nel 2020 (+1,2%). A Milano l’aumento medio è stato del 4,1%, evidenziando una crescita in corso da sei anni consecutivamente, anche se in decelerazione rispetto al 2020, quando era stata addirittura del 12,1%. Nel capoluogo lombardo, questa dinamica è stata però trainata dai prezzi delle abitazioni esistenti (nonostante il rallentamento da +11,7 a +5,4%), perché invece nel 2021 si è invertita la tendenza per i prezzi delle abitazioni nuove: da +15,1% del 2020 a -1,4%.
Infine, Roma. Anche per la capitale si è registrato un incremento dei prezzi, pari al 2,5% (era +0,8% nel 2020), trainato sia da quelli delle abitazioni nuove (da -0,4% a +6,5%) sia da quelli delle esistenti (da +0,9% a +2,0%).
Alla luce di queste dinamiche, tutte e tre le città analizzate riducono la flessione in media d’anno rispetto al 2010: Roma continua a evidenziare il calo più elevato (-25,7%) che risulta del 28,5% per le abitazioni esistenti; segue Torino, dove i prezzi sono diminuiti del 18,5%, sempre rispetto al 2010; mentre a Milano, in controtendenza, rispetto a a quell’anno i prezzi delle abitazioni sono saliti del 9,9%.
La casa resta comunque il più grande sogno degli italiani, che, dopo il lockdown hanno rivisto le proprie priorità e sognano case più grandi, spazi dedicati alle attività che si possono svolgere in casa e spazi all’aperto come giardini e terrazzi.
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“Nutraceutica”, crasi di nutrizione e farmaceutica, è un neologismo coevo a quello di alimentazione funzionale. I nutraceutici sono sostanze che svolgono comprovate funzioni fisiologiche o attività biologiche, derivate mediante le tecniche della sintesi farmaceutica da piante, agenti microbici e alimenti. I nutraceutici possono essere assunti attraverso i cibi funzionali da essi arricchiti oppure sotto forma d’integratori in compresse, capsule, fiale o polveri solubili. Si tratta, quindi, di una categoria a cavallo tra l’alimentazione funzionale e gli integratori.
“La dimensione mondiale del mercato dei cibi funzionali – si legge in un fresco rapporto dell’Area studi di Mediobanca – è stimata a fine 2021 in circa 500 miliardi di dollari, con aspettative di crescita a un tasso medio annuo al 6,9% che porterebbe il comparto a 750 miliardi nel 2027. La categoria più consistente è quella dei cibi per il controllo del peso (slimming o weight management), pari a 214 miliardi di dollari, seguita dagli integratori, che valgono a livello globale 140 miliardi (+7,7%). I baby food arrivano a 73 miliardi (+6,5%), ma sono le specialità vegan (25 miliardi, +9%) a mostrare le attese più rosee”.
Sono diversi i trend di lungo periodo candidati a sostenere la crescita del mercato dei cibi funzionali. In primo luogo, l’allungamento della speranza di vita ha comportato l’aumento della quota di popolazione longeva, con conseguente incremento dei costi sanitari. Ciò ha reso evidente ai sistemi di sanità pubblica la necessità di favorire l’ingresso della popolazione nella fascia di età avanzata in condizioni di relativa buona salute e benessere complessivo. A tale obiettivo concorre certamente un regime alimentare in cui l’assunzione dei nutrienti necessari avvenga in maniera corretta e bilanciata, riducendo la probabilità d’insorgenza delle patologie fisiche e intellettive tipicamente legate all’avanzare dell’età (malattie cardiovascolari, osteoporosi, disturbi della vista, deterioramento delle funzioni cerebrali, ecc.).
Tuttavia, è sempre più evidente la diffusione di stili di alimentazione disordinati e squilibrati, ipercalorici e iperlipidici. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, infatti, il 39% di coloro che hanno più di 18 anni è in sovrappeso, con sostanziale raddoppio dal 20% del 1975. Inoltre, circa il 13% della popolazione mondiale si trova in condizione di obesità, un valore in questo caso triplicato dal 1975. Il sovrappeso e l’obesità tra i bambini e gli adolescenti di età compresa tra 5 e 19 anni sono aumentati a livello mondiale dal 4% del 1975 a oltre il 18%.
A fronte di circa 900 milioni di persone sottonutrite nel mondo, ve ne sarebbero 1,5 miliardi obese o sovrappeso, tanto che i decessi annui per mancanza di alimentazione (circa 36 milioni) non sono troppo distanti da quelli per suo eccesso (29 milioni).
I costi diretti e indiretti legati al disordine alimentare e ai connessi problemi metabolici sono enormi. Le pur incerte stime li indicano complessivamente in 4.800 miliardi di dollari all’anno, vicino al 3,5% del Pil mondiale, con picchi del 4,8% in America Latina (circa 500 miliardi di dollari) e del 4,3% nel Nord America (1.000 miliardi). Il vulnus economico per l’Europa è stimato in circa 900 miliardi, oltre il 3% del suo Pil.
Inoltre, al di là di un’eccessiva assunzione calorica o lipidica, vi è anche un tema di qualità del cibo. Porzioni significative della popolazione seguono un regime alimentare connotato da carenza di componenti nutrizionali essenziali al mantenimento di un adeguato stato di salute. Una dieta bilanciata richiederebbe, per esempio, un’incidenza del 50% nel consumo di frutta e verdura, mentre nella popolazione adolescente europea tale porzione è limitata al 17%. Sempre in Europa il consumo di zuccheri è del 15% superiore ai livelli raccomandati (47%); il consumo di carne li eccede del 36% (38% le carni rosse, 51% gli insaccati).
Il riassortimento della dieta ridurrebbe del 15% le morti legate al disordine alimentare; ma un’ampia porzione della popolazione non appare in grado di organizzare la propria alimentazione quotidiana per raggiungere le soglie raccomandate. E merita ricordare che una non trascurabile fascia della popolazione mondiale nutre un atteggiamento di diffidenza verso i farmaci, paventandone l’assuefazione e gli effetti collaterali. Tale tendenza è potenziata dalle crescenti evidenze di resistenza microbica ai farmaci, che si sviluppa quando microrganismi come batteri, virus, funghi e parassiti mutano in modo da rendere inefficaci i presidi farmacologici utilizzati per il loro contrasto. Si tratta di un fenomeno naturale che viene accelerato da comportamenti impropri, quali l’abuso di antibiotici, la loro dispersione accidentale nell’ambiente con reingresso nella catena alimentare o, ancora, lo smaltimento non controllato di quelli non utilizzati o scaduti.
Il fenomeno della resistenza antimicrobica può contribuire a spingere i consumatori verso la nutraceutica, in particolare quella cui sono associati effetti di potenziamento delle risposte del sistema immunitario. L’emergenza pandemica ha agito da ulteriore acceleratore: l’epidemia ha provocato in particolare un’impennata nella domanda di alimenti e integratori con funzione di supporto del sistema immunitario. Gli integratori a base di vitamina C sono stati particolarmente ricercati. Sebbene nessuna vitamina o cibo, in qualunque quantità, sia in grado di impedire il contagio da Covid-19 una volta che una persona è stata esposta al virus, è pur vero che le persone che soffrono di carenze nutrizionali hanno maggiori probabilità di soffrire delle complicazioni indotte da qualsiasi infezione o malattia e la cattiva alimentazione rientra tra i tanti fattori che potrebbero contribuire a una debole risposta immunitaria.
L’Italia ha una posizione di particolare rilievo con riferimento al mercato degli integratori la cui dimensione è pari a circa 3,8 miliardi di euro nel 2020. Si tratta del primo mercato europeo, stimato valere 14,6 miliardi, con una quota del 26%, davanti alla Germania (18,8%), alla Francia (14,7%), al Regno Unito (9,5%) e alla Spagna (7,2%). Le aspettative di crescita del mercato europeo sono nell’ordine del 6% annuo, con l’Italia che dovrebbe toccare nel 2025 una dimensione pari a 4,8 miliardi. Tra il 2008 e il 2020 il mercato italiano degli integratori è triplicato, con una crescita media annua superiore al 9%.
La forte propensione dei consumatori italiani per gli integratori è evidente considerando che la loro spesa media procapite è di circa 64 euro rispetto ai 33 della Germania, ai 32 della Francia e ai 21 del Regno Unito. Si stima che in Italia il 54% della popolazione faccia ricorso agli integratori, rispetto a quote che si collocano tra il 20% e il 25% in Germania, Francia e Regno Unito. Da tenere presente che in Italia gli integratori sono venduti essenzialmente attraverso il canale delle farmacie e parafarmacie (87% a valore).
“Bisogna mantenere la calma” l’invito di Camillo Venesio il nostro Amministratore Delegato e Direttore Generale che commenta, sulle pagine del Corriere Torino, insieme ad altri grandi nomi della finanza la situazione economica attuale influenzata dal conflitto in Ucraina.
Neppure la pandemia da Covid-19 ha impedito lacrescita delle aziende agrituristiche in Italia che, nel 2020, sono ancora aumentate di 484 unità, confermando così la crescita che dal 2007 caratterizza questo settore. L’Istat, infatti, ha censito che all’inizio del 2021 il nostro Paese aveva oltre 25 mila agriturismi (per la precisione 25.060). Negli ultimi 13 anni il loro numero è aumentato del 41,4%, tasso corrispondente a 7.340 unità. Il tasso medio annuo di crescita tra il 2007 e il 2020 è stato mediamente del 2,5% a livello nazionale, ma del 3,5% nel Nord Ovest.
La dinamica positiva caratterizza questo settore oltre che sotto l’aspetto quantitativo anche sotto quello della diffusione. Nel 2020, i comuni con almeno un agriturismo sono 4.979, il 63% del totale dei comuni italiani (58% nel 2011). Le regioni a maggior diffusione di comuni con almeno un agriturismo sono la Toscana (97,8%), l’Umbria (96,7%), le Marche (88,2%), il Trentino-Alto Adige (83,7%) e l’Emilia-Romagna (83,5%).
Rispetto al 2011, è diminuita la percentuale di comuni con un solo agriturismo (dal 37,2% al 35,9%) e di quelli che ne contano tra 6 e 10 (da 12,3% a 10,1%); al contrario, sono aumentati quelli con 2-5 agriturismi (dal 41,7% al 44,5%) e, in modo più contenuto, quelli con 11-50 agriturismi. Infine, sono rimasti sostanzialmente stabili (intorno all’1%) i Comuni con oltre 50 agriturismi. I comuni con almeno 100 agriturismi sono nove, tutti in Toscana e Trentino-Alto Adige: Grosseto, Cortona, Castelrotto, Manciano, Appiano, San Gimignano, Montepulciano, Montalcino, Caldaro. Sono poi 45 i comuni che ospitano da 50 a 99 agriturismi e 438 quelli nei quali è presente un numero di agriturismi compreso tra 10 e 50.
Ma, se la pandemia non ha bloccato l’aumento del numero degli agriturismi, ne ha però ridimensionato fortemente il valore aggiunto, risultato di poco superiore a 802 milioni di euro nel 2020, perciò inferiore del 48,9% rispetto al 2019 e del 27% rispetto al 2007. Va tuttavia considerato – come sottolineato dall’Istat – che, in conseguenza del lockdown e delle limitazioni per il contenimento del Covid-19, molti agriturismi sono rimasti chiusi e quelli autorizzati alla ristorazione hanno potuto solo offrire servizio di asporto.
Comunque, il valore medio della produzione per azienda (valore economico del settore diviso numero agriturismi) è stato di poco superiore a 32mila euro, a fronte dei 63mila euro del 2019. Il drastico calo è stato conseguente alla forte riduzione di presenze. Nel 2020 gli arrivi nelle strutture agrituristiche sono stati 2,2 milioni (-41,3% rispetto al 2019), il numero più basso dal 2010. La composizione degli ospiti rispetto alla nazionalità vede la prevalenza degli italiani, con 1,5 milioni (poco meno di 2 milioni l’anno precedente) mentre gli stranieri sono stati poco più di 669mila (1,8 milioni nel 2019). Le presenze sono state 9,2 milioni (-34,4% rispetto al 2019), valore simile a quello del 2010. Il 61% delle presenze è dato da agrituristi italiani. La durata della permanenza media (numero di notte trascorse) è stata pari a 3,7 per gli italiani e a 5,3 per gli stranieri.
L’aumento del numero di agriturismi, pur contenuto, è un indicatore della solidità socio-economica e culturale di questo settore anche in un anno drammatico per gli effetti della pandemia. Tra il 2011 e il 2020 ne sono nati 17.424, mentre 12.452 hanno cessato l’attività. Complessivamente, nei 10 anni considerati, il tasso di attivazione è al 7,7% e quello di cessazione al 5,5%.
Tra i 1.385 agriturismi cessati nel 2020, oltre il 30% (erano il 21,5% l’anno precedente) non offriva servizi di alloggio né di ristorazione ma prevalentemente servizi di degustazione, trekking, attività sportive, quindi penalizzati dalle limitazioni imposte dalla pandemia. Questa percentuale scende all’1,9% per gli agriturismi che offrono alloggio, all’1,5% per quelli che offrono solo ristorazione e addirittura allo 0,8% per le strutture con alloggio e ristorazione.
La vita media degli agriturismi è di 13,6 anni. In relazione all’offerta, le strutture più longeve (14 anni) sono quelle che abbinano alla ristorazione almeno un’altra attività diversa dall’alloggio. D’altra parte, per le strutture con solo alloggio o con sola ristorazione la permanenza sul mercato è rispettivamente di 13 e 12 anni. La probabilità di sopravvivenza a un anno dall’inizio dell’attività agrituristica si aggira intorno al 97%, a 5 anni all’86%, a 10 anni è del 64% e, infine, a 20 anni è di poco superiore al 16%. A lungo termine (dopo venti anni) la probabilità di sopravvivenza è maggiore per gli agriturismi con alloggio (17%) e per quelli con alloggio e ristorazione (13%).
La crisi pandemica sembra aver colpito in maniera differente le diverse aree del Paese. In particolare, nel Nord, a fronte della crescita di agriturismi in Liguria (+4,6%), Provincia autonoma di Bolzano (+4,1%), Veneto (+4,3%) ed Emilia-Romagna (+4%) si è registrato un calo nella Valle d’Aosta (-3,3%).
Comunque, la maggiore densità di agriturismi si rileva in Trentino-Altro Adige, dove si contano 27 agriturismi per 100 km2, soprattutto nella Provincia di Bolzano, che raggiunge picchi di 100 agriturismi ogni 100 km2. Seguono. per densità di agriturismi. la Toscana (23 agriturismi per 100 km2) e l’Umbria (16). Altre aree si caratterizzano per una forte presenza di agriturismi sono il Piemonte meridionale, la parte orientale del Friuli-Venezia Giulia, quella occidentale del Veneto e della Liguria e l’estremità meridionale della Puglia.
La distribuzione per zona altimetrica è rimasta pressoché invariata rispetto al 2019: il 53,2% degli agriturismi si trova in comuni collinari; il 31% si situa invece in zone montuose, in particolare nella Provincia autonoma di Bolzano, che conta il 42% degli agriturismi di montagna. Il restante 15,9% degli agriturismi è ubicato in pianura; in particolare Veneto, Lombardia e Puglia detengono il 48% degli agriturismi delle zone pianeggianti.