Tra le attività che, da anni, nonostante tutto, continuano a crescere, in Piemonte come nel resto d’Italia, spicca quella delle istituzioni non profit, cioè di quei soggetti privati, dotati o meno di personalità giuridica – associazioni, fondazioni, cooperative sociali e gli altri enti del Terzo settore – che producono beni e servizi senza scopo di lucro e, fra l’altro, non possono distribuire gli eventuali avanzi di gestione (utili). Una conferma del fenomeno l’ha appena fornita l’Istat, l’istituto nazionale di statistica, con il suo ultimo osservatorio specifico.
Il numero delle istituzioni non profit nel nostro Paese, prima della Pandemia, è aumentato mediamente del 2% all’anno. Tanto che al 31 dicembre 2018 ne sono state censite 853.476 (ancora il 2,6% in più rispetto alla stessa data del 2017). Di queste poco più di 30.000, per la precisione 30.090, con sede in Piemonte, la quarta regione a vantarne di più, essendo preceduta soltanto dalla Lombardia (57.710), il Lazio (33.325) e il Veneto (31.034). La quota piemontese è pari all’8,36% del totale nazionale.
Rispetto al complesso delle imprese dell’industria e dei servizi, le istituzioni non profit hanno continuato a crescere non soltanto di numero ma anche come incidenza, passata infatti dal 5,8% del 2001 all’8,2% del 2018, diversamente dal peso dei dipendenti, rimasto pressoché stabile (6,9%). A fine 2018, infatti, i dipendenti delle istituzioni non profit sono risultati in Italia 853.476, dei quali 74.114 in Piemonte. Qui sono aumentati dell’1,8% rispetto all’anno prima, a fronte dell’1% medio nazionale.
Con l’eccezione delle cooperative sociali, rimaste sostanzialmente stabili, nell’ultimo anno censito, le istituzioni non profit sono aumentate in tutte le forme giuridiche, ma, in particolare, come fondazioni (+6,3%). Comunque, l’associazione è la forma giuridica che raccoglie la quota maggiore di istituzioni (85%), seguono quelle con altra forma giuridica (8,4%), le cooperative sociali (4,4%) e le fondazioni (2,2%). La distribuzione dei dipendenti per forma giuridica resta piuttosto eterogenea, con il 53% impiegato dalle cooperative sociali, il 19,2% dalle associazioni e il 12,2% dalle fondazioni.
La distribuzione delle istituzioni non profit per attività economica vede prevalere il settore cultura, sport e ricreazione con quasi due terzi delle unità (64,4%), seguito da quelli dell’assistenza sociale e protezione civile (9,3%), delle relazioni sindacali e rappresentanza interessi (6,5%), della religione (4,7%), dell’istruzione e ricerca (3,9%) e della sanità (3,5%). Nei settori dello sviluppo economico e coesione sociale e della cultura, sport e ricreazione più di una istituzione su quattro è stata costituita nel quinquennio 2014-2018, contrariamente ai settori della religione, della filantropia e promozione del volontariato, dell’istruzione e ricerca e della sanità dove tale quota è inferiore al 15%.
Fra l’altro, l’Istat ha rilevato che, nel 2018, le istituzioni non profit iscritte nell’elenco degli enti destinatari del cinque per mille sono 60.425, pari al 16,8% del totale. E la scelta operata dai contribuenti al momento della dichiarazione dei redditi per la destinazione del cinque per mille dell’Irpef ha premiato maggiormente le istituzioni non profit operanti nei settori dell’assistenza sociale e protezione civile (25%), dell’istruzione e ricerca (23,2%), della sanità (15,6%) e della cooperazione e solidarietà internazionale (12,3%).
Diversamente, il settore della cultura, sport e ricreazione (12,%) sebbene raccolga oltre il 40% delle istituzioni non profit destinatarie del cinque per mille, ha ricevuto il 12,% delle preferenze dei contribuenti.
Banca del Piemonte ha pensato per loro ad un conto corrente, il Conto BP non Profit dedicato agli enti senza scopo di lucro con esigenze finanziarie ed operative semplici che vogliono contenere i costi.
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Con l’emergenza Covid, in Italia, più di una famiglia su quattro (26%) è tornata a cimentarsi nella preparazione della pasta, semplice o ripiena, fatta in casa. E’ un effetto del maggior tempo passato tra le mura domestiche, causa lockdown e smart working. Il fenomeno è stato rilevato da una indagine Coldiretti/Ixe’ presentata in occasione della Giornata Mondiale della Pasta, celebrata il 25 ottobre.
E la stessa Coldiretti ha sottolineato che proprio la pandemia ha di fatto favorito uno storico ritorno al passato rispetto alle prime fasi dell’industrializzazione e urbanizzazione dell’Italia, quando la conquista della modernità passava anche dall’acquisto della pasta, piuttosto che dalla sua fattura in casa. Allora, però, erano soprattutto le anziane a usare il matterello; mentre adesso la passione dell’impasto si sta diffondendo anche tra i più giovani e tra persone completamente a digiuno delle tecniche di preparazione, grazie anche ai robot da cucina che, infatti, hanno registrato un boom di vendite.
Così, nei primi sei mesi di quest’anno, si è registrata una crescita boom degli acquisti di farina (+59%) e delle uova (+22%), proprio per effetto della tendenza degli italiani a sbizzarrirsi preparando pasta fatta in casa. E quanto non c’è tempo sufficiente per farlo, si cerca comunque di far scorte dagli scaffali di pasta Made in Italy, che utilizza solo grano nazionale, i cui acquisti sono cresciuti in valore del 29% rispetto allo stesso periodo del 2019.
Una vera e propria svolta patriottica, favorita dall’obbligo dell’etichettatura di origine del grano impiegato che ha spinto le principali industrie agroalimentari a promuovere delle linee produttive con l’utilizzo di cereale coltivato interamente nei campi della Penisola.
L’Italia è il Paese con il più elevato consumo di pasta al mondo: 23,5 chilogrammi a testa all’anno, contro i 17 chili della Tunisia, seconda in questa speciale classifica, che vede seguire i primi due da Venezuela (12 kg), Grecia (11 kg), Cile (9,4 kg), Stati Uniti (8,8 kg), Argentina e Turchia a pari merito (8,7 kg).
Dati dai quali si ricava che l’amore per la pasta è diffuso a livello globale e che spiegano il continuo aumento delle esportazioni di pasta dall’Italia, salite del 23% nei primi sette mesi quest’anno, quando il loro valore ha fatto segnare il record storico di quasi 1,9 miliardi di euro. A trainare le vendite all’estero sono gli Stati Uniti, dove gli acquisti di spaghetti e pennette Made in Italy sono balzati del 41% – ha rilevato la Coldiretti – ma anche il Regno Unito, dove i consumi sono saliti del 29%. Aumenti a doppia cifra sono stati registrati anche in Germania (+22%) che si conferma il primo mercato estero per la pasta italiana e in Francia (+17%), per non parlare della Cina (+38%), il cui import di pasta italiana però in quantità ancora limitate.
“La potenza di fuoco del mondo bancario italiano è molto ampia, c’è molta liquidità nelle banche che possono quindi continuare a finanziare l’economia nei prossimi mesi, dipenderà dalla volontà del Governo
proseguire e ampliare le garanzie”.
Sono arrivate le prime castagne italiane, in seguito a un raccolto anticipato grazie a un settembre particolarmente caldo che ha favorito la maturazione. Ed è prevista una produzione nazionale in crescita, superiore ai 35 milioni di chilogrammi, oltre che di qualità.
La stima dell’aumento ha generato molto soddisfazione, dato che, in alcune zone, i castagni hanno rischiato addirittura l’estinzione, perché il cinipide galligeno proveniente dalla Cina da anni infesta i boschi lungo la Penisola provocando nella piante la formazione di galle, cioè ingrossamenti delle gemme di varie forme e dimensioni. Contro questa minaccia, però è stata avviata una capillare guerra biologica, con la diffusione dell’insetto Torymus sinensis, che è un antagonista naturale del nemico cinese del castagno.
Nonostante l’incremento di quest’anno, la produzione nazionale dei frutti di quello che Giovanni Pascoli chiamava “l’italico albero del pane”, simbolo dell’autunno nei libri scolastici di molteplici generazioni, resta lontana dalle quantità del passato: nel 1911 ammontava a 829 milioni di chili e ancora dieci anni fa era pari a 55 milioni di chili. Comunque, una buona ripresa è stata registrata in in Campania, Toscana ed Emilia-Romagna, mentre maggiori problemi sono stati rilevati in Calabria, Lazio e Piemonte, con la raccolta ostacolata dall’ondata di maltempo.
L’abbassamento delle temperature sta favorendo un aumento dei consumi di castagne da parte delle famiglie. Nei mercati all’ingrosso i prezzi vanno da 2,50 a 4,50 euro al chilo, a seconda del calibro; mentre i prezzi al consumo tendono a raddoppiare. E c’è il rischio di acquistare, senza saperlo, castagne straniere provenienti dall’estero, soprattutto da Portogallo, Turchia, Spagna e Grecia. Non per nulla, le importazioni di castagne nel 2019 sono risultate pari a ben 32,8 milioni di chili. Da qui la richiesta di Coldiretti di assicurare più controlli sull’origine delle castagne messe in vendita in Italia. Ancora peggiore è la situazione dei trasformati, per i quali non vi è l’obbligo di etichettatura di origine e per le farine di castagne che non hanno neppure un codice doganale specifico.
E pensare che l’Italia può vantare quindici prodotti a denominazione di origine legati al castagno che hanno ottenuto il riconoscimento europeo, due dei quali sono piemontesi: la Castagna Cuneo Igp e il Marrone della Valle di Susa Igp; cinque si trovano in Toscana e sono il Marrone del Mugello Igp, il Marrone di Caprese Michelangelo Dop, la Castagna del Monte Amiata Igp, la Farina di Neccio della Garfagnana Dop e la Farina di Castagne della Lunigiana Dop. In Campania è riconosciuta la Castagna di Montella Igp, il Marrone di Roccadaspide Igp e il Marrone di Serino/Castagna di Serino Igp; in Emilia-Romagna il Marrone di Castel del Rio Igp, in Veneto il Marrone di San Zeno Dop, i Marroni del Monfenera Igp e i Marroni di Combai Igp; nel Lazio la Castagna di Vallerano Dop A questi si aggiungono due mieli di castagno: il Miele della Lunigiana Dop della Toscana e il Miele delle Dolomiti Bellunesi Dop del Veneto.
E’ un patrimonio nazionale, dunque, quello della castagne, che restano nelle tradizioni alimentari autunnali degli italiani, i quali le gustano in diversi modi: arrosto (dopo averle incise sul lato bombato – suggerisce la Coldiretti – vanno messe in una padella di ferro con il fondo forato e cotte o sul fuoco vivo o in forno per circa 30 minuti; dopo la cottura si consiglia di avvolgerle in un canovaccio umido); lesse (dopo averle lavate accuratamente, cuocerle in abbondante acqua salata per circa 40 minuti); cotte in latte e zucchero; usate per particolari ripieni, nella preparazione di primi piatti o elaborati secondi a base di carne.
Tangram Teatro Torino, grazie al sostegno di Banca del Piemonte e al supporto del Gruppo Rete 7 Piemonte sposta la programmazione sul digitale terrestre e sui canali social.
“Fare teatro” ai tempi del distanziamento fisico, per mantenere vivo il contatto con gli spettatori dal vivo ma contemporaneamente portando il teatro a casa di ciascuno.
6 spettacoli che, dal 6 novembre all’11 dicembre, dal palco della sala di Via Don Orione del Tangram Teatro Torino, andranno contemporaneamente in onda in diretta sul canale 72 VideoNord e sul canale 110 Piemonte + della televisione di casa. Ma anche sulle pagine Facebook di Banca del Piemonte e Tangram Teatro Torino.
Questo particolare progetto sarà presentato con la stessa modalità di trasmissione degli spettacoli, venerdì 30 ottobre alle ore 21.00, in una presentazione-spettacolo che vedrà la partecipazione degli artisti in cartellone: LAURA CURINO – ALESSANDRO PERISSINOTTO – IVANA FERRI – GIGI VENEGONI -BRUNO MARIA FERRARO – PATRIZIA POZZI – SILVIA CARBOTTI – MAX CARLETTI.
Su 94 milioni di persone che ogni anno visitano, complessivamente, i musei italiani, 45 milioni sono coloro che accedono agli immobili privati di interesse storico-culturale aperti al pubblico, immobili che costituiscono una parte del patrimonio museale nazionale di rilevanza pari a quella pubblica.
Si parla delle “dimore storiche”: castelli, ville, palazzi, masserie, rocche, ma anche parchi, giardini, tenute agricole, beni antichi diffusi in tutto il Bel Paese, che attraggono un numero sempre maggiore di visitatori e contribuiscono sempre di più pure all’economia locale, grazie, fra l’altro, all’indotto che generano: dai restauri alle attività commerciali ed enogastronomiche.
In Italia, le dimore storiche sono 9.400, numero superiore a quello di tutti i Comuni della Penisola. Lo ha rilevato l’Osservatorio del patrimonio culturale privato italiano, frutto della collaborazione tra l’Associazione Dimore Storiche Italiane (Asdi) e la Fondazione Visentini, realizzata con la collaborazione di Confagricoltura e Confedilizia. Osservatorio che non solo rappresenta la fonte di riferimento per la corretta definizione del ruolo economico, culturale e sociale del sistema degli immobili privati di interesse storico-artistico in Italia, ma vuole anche divenire un valido supporto per le istituzioni, aiutandole nella definizione delle politiche da adottare per far sì che il patrimonio privato concorra all’effettiva ripartenza tanto del turismo quanto dell’artigianato.
Degli investimenti che si fanno e che si potrebbero fare, infatti, potrebbero beneficiarne soprattutto i territori che ospitano questi beni unici, soprattutto i piccoli borghi: secondo le stime più prudenziali, ogni euro investito nelle dimore storiche determina benefici almeno doppi per l’economia dei luoghi nei quali sorgono. L’indotto si riverserebbe su diverse filiere, creando un volano economico rilevante e, nel lungo termine, quello sviluppo sostenibile locale, che molti indicano come la strada da seguire. Uno sviluppo che avrebbe il valore aggiunto di conservare e valorizzare un patrimonio identitario riconosciuto a livello mondiale.
Il 54% di questi immobili privati di valore storico-culturale si trova in Comuni con meno di 20.000 abitanti e, nel 29% dei casi, addirittura in centri con meno di 5.000 residenti. Comunque, si tratta di un patrimonio che necessita di continui lavori di restauro e di manutenzione. Attività che, negli ultimi cinque anni, hanno sofferto considerevolmente la crisi, come conferma, fra l’altro, la perdita del 30% delle imprese del settore.
L’Osservatorio ha anche stimato in 1,8 miliardi di euro la perdita con seguente alla pandemia Covid-19 per quelle dimore che contano almeno una attività produttiva al loro interno e in 30.000 i relativi posti di lavoro a rischio. Il settore maggiormente sotto pressione è risultato essere quello correlato al vitivinicolo (con perdite di circa un miliardo di euro), seguito da quello degli eventi (meno 278 milioni di euro) e delle visite in dimora (meno 268 milioni di euro). Dati che non comprendono le perdite di tutto l’indotto che queste attività generano localmente.
“È doveroso superare ogni distinzione tra patrimonio culturale pubblico e privato” ha dichiarato Dario Franceschini, ministro per i Beni e le attività culturali e per il turismo, in occasione della presentazione dell’Osservatorio, sottolineando che “insieme costituiscono la nostra identità e contribuiscono all’attrattività del Paese”. Ha riconosciuto che lo Stato impone molti obblighi ai proprietari di dimore storiche e vincoli per la loro tutela. Per questo motivo, servono agevolazioni e contributi finalizzati al sostegno degli interventi sulle dimore storiche e per custodirne la vitalità.