La digitalizzazione delle imprese contribuisce a ridurre i danni causati dalla pandemia.
L’ accelerazione verso l’uso di strumenti 4.0 da parte delle pmi si inserisce all’interno di un generale percorso di crescita della digitalizzazione delle imprese avviato tre anni fa grazie alle politiche di incentivazione messe in campo dal governo e ai servizi di assistenza offerti dalla rete dei soggetti qualificati presenti sul territorio nazionale.
La pandemia ha accresciuto i divari territoriali, di genere, di età e fra i settori produttivi, ma il digitale è la leva per ridurli. Come mostra il dossier presentato da Unioncamere, l’utilizzo delle nuove tecnologie limita le differenze tra piccole e medio-grandi aziende, contribuisce a sostenere la governance delle imprese manifatturiere a conduzione familiare, agevola il recupero delle aziende dei servizi, più tartassate dal Covid.
Ma c’è ancora molta strada da fare: solo il 26% delle imprese italiane è a conoscenza del Piano Impresa 4.0 e, tra queste, il 9%, pur conoscendolo, comunque non investe. Per il resto, vale a dire per i due terzi della manifattura italiana, gli strumenti messi in campo e le grandi opportunità offerte dalle tecnologie non sono (ancora) all’ordine del giorno.
“La digitalizzazione vale fino a sette punti di Pil, ma abbiamo ancora un ritardo enorme da colmare”, ha sottolineato il presidente di Unioncamere, Carlo Sangalli. Secondo il quale, “il Piano nazionale di ripresa e resilienza rappresenta una occasione unica; però occorre coinvolgere attivamente milioni di PMI, di artigiani e di lavoratori autonomi. I Punti Impresa Digitali realizzati dalle Camere di commercio hanno introdotto in questi anni oltre 350mila aziende alle tecnologie abilitanti attraverso migliaia di corsi di formazione, di assessment e di supporti operativi. E oggi questa speciale rete è una best practice a livello internazionale”.
Secondo i dati di Unioncamere e del Centro studi Guglielmo Tagliacarne, il 70% delle micro e piccole imprese che ha avviato la svolta digital ritiene di poter raggiungere i livelli di produttività pre-Covid già nel 2022 (contro il 61% di quelle che ancora non hanno messo in campo investimenti nelle nuove tecnologie), allineandosi così alla quota di medio-grandi imprese che hanno la medesima previsione.
Le imprese familiari hanno risentito particolarmente dei riflessi negativi della crisi pandemica e solo in sei casi su 10 confidano in un recupero entro il 2022. Tra quelle che hanno investito nel digitale, però, la quota sale al 70%. Analoghi effetti positivi si riscontrano tra le imprese dei servizi: il 61% di quelle digitalizzate ritiene di poter azzerare gli effetti dell’emergenza sanitaria entro il 2022, a fronte del 53% di quelle non digitalizzate.
I Punti impresa digitale (Pid) delle Camere di commercio in tre anni hanno avvicinato alle nuove tecnologie oltre 350mila imprenditori e gli sforzi messi in campo per favorire la transizione digitale cominciano a dare i primi frutti. Se la metà dei 32mila imprenditori che hanno effettuato finora i test di autovalutazione messi a disposizione dalle Camere di commercio è ancora alle prime armi, il 48% ha fatto un passo avanti, risultando Specialista, Esperto o Campione. Tre anni fa questi risultati erano stati raggiunti da meno del 40% degli imprenditori.
Questa accelerazione verso l’uso di strumenti 4.0 da parte delle PMI si inserisce all’interno di un generale percorso di crescita della digitalizzazione delle imprese avviato tre anni fa grazie alle politiche di incentivazione messe in campo dal governo e ai servizi di assistenza offerti dalla rete dei soggetti qualificati presenti sul territorio nazionale.
Il Trentino-Alto Adige svetta in cima alla classifica nazionale per livelli di digitalizzazione delle PMI, avendo un livello di digitalizzazione di 2,31 su un punteggio massimo di 4, contro una media nazionale di 2,03. Seguono la Lombardia con un punteggio di 2,16 e l’Emilia-Romagna con 2,14. Al Piemonte è stato attribuito il punteggio 2,09, alla Liguria 2,02 e alla Valle d’Aosta 2,00. Le regioni del Sud, in particolare Sicilia (con un livello di digitalizzazione di 1,84) e Calabria (con un livello di digitalizzazione di 1,92), sono fanalini di coda per maturità digitale delle PMI.
Per essere conformi alla nuova Direttiva Europea relativa alla sicurezza dei pagamenti online, Nexi ha ideato una nuova soluzione di protezione che si attiva nella fase finale del pagamento e-commerce tramite carte di credito, debito e prepagate.
A partire da aprile 2021, infatti, sempre più siti richiedono di completare gli acquisti con un ulteriore livello di sicurezza.
A seconda del sito su cui si fanno gli acquisti, potrà essere richiesto di autorizzare il pagamento con Key6®, il codice di sei cifre da utilizzare al momento del check-out, dopo aver inserito il codice “usa e getta” ricevuto via SMS.
Importante: senza questo sistema di sicurezza, non sarà possibile fare acquisti online sui siti che adotteranno il nuovo processo di autenticazione per i pagamenti e-commerce.
Alcuni siti e-commerce non supportano il riconoscimento facciale o tramite impronta digitale ( Touch ID e Face ID) e in questi casi è necessario inserire il codice Key6®.
Come configurare Key6® :
Accedere all’App Nexy Pay o all’area personale del sitonexi.it
Seguire le indicazioni dell’attivazione guidata
Definire il codice personale Key6®.
Come pagare con Key6®:
Procede al pagamento inserendo i dati della Carta
Inserire il codice “usa e getta” inviato via SMS, al numero di telefono cellulare certificato associato al servizio 3D Secure
Il Sole 24 Ore ha pubblicato una puntuale ed accurata analisi di Camillo Venesio, il nostro Amministratore Delegato e Direttore Generale, sull’utilità di preservare la diversità bancaria.
“Sono molte le realtà, anche se medio piccole, che sono punto di riferimento per un intero territorio”.
Torino sul podio nazionale della cultura. La provincia con la Mole è al terzo posto in Italia nelle classifiche per l’incidenza sistema produttivo culturale e creativo nell’economia localesia per valore aggiunto che per l’occupazione, in entrambi i casi con il tasso dell’8,1%.
La medaglia di bronzo a Torino è stata attribuita dal Rapporto “Io sono cultura”, promosso da Fondazione Symbola, Unioncamere, insieme a Regione Marche e Credito Sportivo, con la partnership di Fondazione Fitzcarraldo e Centro Studi delle Camere di Commercio Guglielmo Tagliacarne e con il patrocinio del ministero della Cultura.
Il Rapporto, giunto alla decima edizione, è l’unico studio in Italia che, annualmente, quantifica il peso della cultura e della creatività nell’economia nazionale. Uno studio che contiene, insieme a un’analisi del sistema pre-covid (2019), anche informazioni sul 2020, ricavate attraverso un’indagine condotta su un campione di oltre 1.800 imprese appartenenti al core del sistema produttivo culturale e creativo, confermando che cultura e bellezza del nostro Paese rappresentano tratti fondativi della società (da qui il titolo del rapporto) e, grazie alla loro forte relazione con la manifattura, hanno dato vita a una delle più forti identità produttive del mondo: il Made in Italy.
Nel 2019, il sistema produttivo culturale e creativo in Italia era in crescita e rappresentava il 5,7% del valore aggiunto italiano: oltre 90 miliardi di euro, cioè l’1% in più dell’anno precedente.
Oltre il 44% di questa ricchezza era generato da settori non culturali, manifatturieri e dei servizi, nei quali lavorano oltre 630.000 professionisti della cultura. Il sistema produttivo culturale e creativo dava lavoro a più di un milione e mezzo di persone, vale a dire il 5,9% dei lavoratori italiani. Dato in crescita rispetto al 2018: +1,4%, con una performance nettamente migliore rispetto al complesso dell’economia (+0,6%).
Nel rapporto “Io sono cultura” si trova che il 44% degli operatori della filiera stima perdite di ricavi nel 2020 superiori al 15% del proprio bilancio, mentre il 15% prospetta perdite che superano addirittura il 50%. A soffrire di più sono state le imprese dei settori performing arts e arti visive, quelle operanti nella conservazione e valorizzazione del patrimonio storico e artistico, per la maggiore esposizione alle norme di distanziamento sociale e molte delle imprese che rappresentano l’indotto culturale come, per esempio, parte della industria turistica nazionale.
“Occorre tuttavia segnalare anche la presenza di settori in cui l’incidenza di imprese che dichiarano di aver sperimentato una crescita dei ricavi è tutt’altro che trascurabile – hanno scritto gli autori dello studio – in primo luogo il settore videogiochi e software (avvantaggiato dall’allontanamento sociale che ha aumentato la domanda di intrattenimento domestico), ma anche il comparto architettura e design”.
Comunque, la crisi pandemica ha evidenziato tante fragilità del settore. Prima su tutte la frammentazione tra i vari segmenti: “le diversità di mondi peculiari, che necessitano di norme e strumenti specifici, – si spiega – va accompagnata da una visione sistemica del settore e da un’idea di sviluppo condivisa, frutto di contaminazioni crescenti e necessarie per attivare una catena del valore che renda più sostenibili le produzioni culturali”.
In ogni caso, i numeri dimostrano che la cultura è uno dei motori dell’economia italiana. E la Lombardia, con 24,1 miliardi di euro e 353 mila addetti, si collocano ai vertici del panorama culturale italiano. Sono valori che, rispettivamente, incidono per il 7,3% e il 6,9%. In particolare, Milano si conferma prima su entrambi gli indicatori economici, con incidenze intorno ai dieci punti percentuali. A livello provinciale, Roma è seconda per valore aggiunto (8,7%) e quarta per occupazione (7,9%). Dopo Torino, terza, seguono, per valore aggiunto Arezzo (7,6%), Trieste (7,1%), Firenze (6,8%), Bologna (6,1%) e Padova (6,0%).
Come evidenzia il nuovo Rapporto, il ruolo della cultura non si ferma alla sola quantificazione dei valori della filiera. Importanti sono anche i legami tra cultura e turismo (la Lombardia è la prima regione per spesa turistica attivata dalla domanda di cultura con 3,9 miliardi di euro e quinta per incidenza della stessa sul totale della spesa culturale). Quanto al legame tra cultura e manifatturaappare evidente nei distretti, ovvero in quelle aree dove è presente una rilevante concentrazione di professioni artigianali, che valorizzano competenze creative del made in Italy. Fra queste eccellenze distrettuali, fortemente orientate ai mercati esteri, si trovano Monza-Brianza, Arezzo, Alessandria, Modena, Reggio Emilia, Pesaro-Urbino.
In Piemonte, le imprese del sistema produttivo culturale e creativo sono quasi 21.000 a fine 2019: 7.556 attive nel settore architettura e design, 2.724 nella comunicazione, 837 nell’audiovisivo- musica, 2.457 nei videogiochi e software, 4.690 nell’editoria-stampa, 2.297 nelle performances arts e arti visive, infine 83 nel patrimonio storico e artistico.
C’è un altro “derby”, tra Italia e Francia, oltre a quello del vino. La nuova sfida è sul mercato delle acque minerali, che finanziariamente vale meno del nettare di Bacco (tre miliardi di euro contro undici); ma non è meno importante per la conquista delle tavole a livello mondiale. Le acque minerali, infatti, rappresentano un’eccellenza del food&beverage italiano, del quale costituiscono un turbo per le esportazioni agro-alimentari.
Anche se nel 2020, dopo quasi dieci anni di crescita ininterrotta, le vendite di acque minerali italiane all’estero hanno subito una battuta d’arresto a causa del Covid-19, comunque inferiore a quelle dei principali concorrenti, a partire proprio dalla Francia. Come rilevato dal Mineral Water Monitor, l’osservatorio Nomisma delle acque minerali e termali, che ha registrato anche una contrazione del mercato interno, per effetto della pandemia. Il Coronavirus, infatti, ha mutato il modello di consumo degli italiani, portando a un crollo delle vendite nel canale Horeca (Hotellerie, restaurant, cafe e catering), alla stazionarietà delle vendite in Gdo (Grande distribuzione organizzata), nonché al raddoppio del giro d’affari dell’e-commerce.
Comunque, escludendo il 2020, i dati del Mineral Water Monitor evidenziano il boom dell’export delle acque minerali italiane, raddoppiato in valore (+101%), tra il 2010 e il 2019. Un incremento ancora più significativo se paragonato a quello degli altri principali prodotti alimentari Made in Italy: le esportazioni dei formaggi nello stesso periodo sono aumentate del 93%, quelle dei vini del 64% e del 49% quelle della pasta. Solo l’export del caffè ha registrato performance migliori con una crescita del 119%.
A livello globale, l’Italia figura secondo posto tra i Paesi esportatori di acque minerali in termini di valore, con 539 milioni di euro nel 2020. È preceduta unicamente dalla Francia, prima con 651 milioni, mentre seguono le Fiji, al terzo posto con 121 milioni (nel 2019) e, al quarto, la Georgia, con 101 milioni. Le acque minerali delle Fiji sono molto apprezzate dagli Stati Uniti, mentre quelle della Georgia hanno un buon mercato in Russia.
Restando sul confronto tra Italia e Francia, è interessante una differenza tra il mercato del vino e quello dell’acqua minerale. Se sul vino i francesi vantano un posizionamento quasi doppio in termini di prezzo all’export (6,2 euro al litro contro i 3,6 euro dei vini fermi italiani), nel caso dell’acqua minerale è l’Italia ad avere un prezzo medio all’export più elevato, ossia 0,36 euro al litro contro 0,26 euro della Francia.
Grazie alla qualità delle sue acque, alla presenza di brand dalla forte notorietà e all’ottima percezione da parte del consumatore finale, negli ultimi anni l’Italia ha performato meglio dei suoi competitors stranieri e ha accresciuto la propria quota di mercato, confermando la propria leadership in alcuni Paesi. È questo il caso degli Stati Uniti, primo mercato al mondo per importazioni di acque (461 milioni di euro), dove l’Italia detiene la quota del 41%. Gli altri maggiori importatori delle acque del Bel Paese sono la Francia, dove l’Italia è leader con la quota dell’84% del mercato, la Germania, la Svizzera e il Regno Unito.
L’anno scorso, causa Covid, l’export italiano delle acque minerali ha subito una battuta d’arresto, calando dell’11% rispetto al 2019. Questo è avvenuto a causa del Covid, che ha provocato una contrazione dell’export pari all’11%. Meno della Francia (-15%). E questo ha permesso all’Italia di ridurre le distanze a 111 milioni di euro rispetto ai 211 di cinque anni fa. Nel 2020, tra i principali importatori mondiali di acque minerali, gli unici ad aver registrato un incremento degli acquisti dall’estero sono gli Usa (+6,8%). Gli altri Paesi, invece, hanno subito una contrazione delle importazioni: la Germania ha registrato un calo del 4,7%, il Giappone del 6,7%, il Regno Unito addirittura del 18,6%.
In Italia, le vendite di acque minerali stanno soffrendo particolarmente nel settore Horeca, a causa delle chiusure (o dei limiti di orari) di bar e ristoranti, della riduzione dei flussi turistici e dell’incremento dello smart working. La Gdo risulta stazionaria, mentre il canale e-commerce ha raddoppiato il giro di affari. Le restrizioni agli spostamenti durante il lockdown e la possibilità di ricevere la spesa direttamente a casa hanno fortemente incentivato le vendite online, raddoppiate tra il 2019 e il 2020 sia in termini di quantità (+94,5%) sia in termini di volume (+92,5%). Nonostante ciò, però, il peso dell’e-commerce sull’off-trade (Gdo e retail) risulta ancora marginale, rappresentando appena il 2%.
“L’industria piemontese ha reagito decisamente bene alla pandemia”, ne è convinto Camillo Venesio, Amministratore Delegato e Direttore Generale di Banca del Piemonte e ne parla nell’intervista rilasciata a La Stampa.