Un mito più forte anche del Coronavirus. È quello della Ferrari.
L’unica Casa automobilistica adavere chiuso il 2020con un numero di vetture vendute in Italia superiore a quello del 2019, insieme con Tesla, la rivoluzionaria industria californiana che produce solo quattroruote elettriche.
Infatti, nonostante il Covid-19 e il conseguente lockdown, che hanno affossato il mercato (1.458.117 le nuove immatricolazioni in Italia, quasi 459.000 meno che nel 2019), la Ferrari ha avuto, l’anno scorso, 506 acquirenti nel nostro Paese, ancora una decina più dei dodici mesi precedenti(+2,2%).
Fra l’altro, la Casa di Maranello, controllata dall’Exor della famiglia Agnelli-Elkann-Nasi e presieduta da John Elkann, è entrata nella top ten nazionale del segmento F, quello che caratterizza l’alto di gamma, il più piccolo ma anche il più esclusivo.
La Ferrari c’è riuscita con la “488”, la quale ha contato 164 nuovi clienti, che valgono appunto il decimo posto della categoria, dominata dalla Porsche 911 con 1.155 immatricolazioni (sugli altri due gradini del podio si sono piazzate la Maserati Ghibli con 424 unità e la Porsche Taycan con 332).
Complessivamente, il mercato nazionale dell’alto di gamma è stato di 4.807 vetture, il 14,4% meno dell’anno prima, a conferma del fatto che il periodo di confinamento ha avuto conseguenze negative anche sulle vendite delle auto più costose.
Molto meno, comunque, dei segmenti più popolari; infatti, il mercato delle city car si è contratto del 29,7% (228.573 nuove immatricolazioni contro le 325.318 del 2019) e del 22,5% quello delle utilitarie (522.658 contro le 656.675 precedenti). Per non parlare del segmento C, quello delle medie, che ha perso il 33%, avendo fatto registrare 439.876 vendite a fronte delle 656.675 del 2019.
Proprio fra i primi dieci modelli del segmento F con più acquirenti nell’anno appena passato si trovano due Tesla: la Model X, quinta con 229 immatricolazioni e la Model S, sesta con 223. In tutto il 2020, la Tesla ha venduto 3.804 sue vetture, il 55% in più rispetto al 2019. Così, la Casa statunitense guidata dal fondatore Elon Musk, il più ricco al mondo, ha ottenuto quasi il 12% dell’intero mercato italiano delle sole elettriche, che è risultato di 32.538 esemplari, il triplo dell’anno prima (10.577).
Il boom delle sole elettriche è stato accompagnato da quello delle altre ecologiche, le ibride elettriche e le ibride elettriche plug-in. Fenomeno che ha portato a 59.946 il totale delle vetture “verdi” vendute l’anno scorso in Italia, il 250% in più rispetto al 2019, quando erano state 17.117 e al 4,3% la loro quota di mercato dal precedente 0,9%.
Una recente ricerca di Nomisma ha mostrano i benefici ottenibili attraverso interventi di riqualificazione energetica e sismica sul patrimonio immobiliare pubblico italiano, che, fra l’altro, darebbero nuovo slancio all’economia del Paese dopo la crisi provocata dalla pandemia da Covid-19.
La ricerca evidenzia quali investimenti sarebbero richiesti alle istituzioni locali e, soprattutto, quale sarebbe il loro ritorno in termini economici.
L’urgenza di una riqualificazione – in particolare si fa riferimento a uffici comunalie scuole territoriali – nasce dal fatto che, in larga misura, si tratta di strutture datatee bisognose di ottimizzazioni dal punto di vista energetico e sismico.
I benefici individuati sono di vario tipo: dal punto di vista economico, in particolare, si parla di un effetto moltiplicativo sul Pil pari a 3,6 volte la somma investita e di una rivalutazione di valore degli immobili delle Amministrazioni locali fino a oltre il 30%.
Inoltre, la riqualificazione stessa degli edifici consentirebbe agli Enti locali di risparmiare sulla manutenzione ordinaria e straordinaria delle strutture e di ottenere consistenti risparmi energetici. Senza dimenticare che gli interventi permetterebbero di conseguire anche importanti benefici per l’ambiente, per esempio attraverso la riduzione delle emissioni di anidride carbonica in atmosfera,l’attivazione di un’economia circolare, la salvaguardia del suoloe la diminuzione dell’impatto sui cambiamenti climatici.
Dopo aver analizzato il quadro a livello nazionale, Nomisma ha evidenziato quelli che sarebbero i benefici, per ogni regione italiana, derivanti da interventi sul patrimonio immobiliare pubblico. In relazione agli uffici comunali e alle scuole territoriali, quindi, per ciascuna regione è stato quantificato l’investimento necessario per la riqualificazione energetica, per la messa in sicurezza sismica e per le spese tecniche. Inoltre, sono stati valutati gli impatti su produzione, occupazione, valore aggiunto, reddito da lavoro.
Per il Piemonte, in particolare, Nomisma ha stimato una spesa di circa 1,2 miliardi, grazie alla quale sarebbe possibile non solo dare lavoro a 27.514 persone, ma anche ottenere un impatto positivo sul Pil regionale pari a 4,5 miliardi di euro. Comunque, la regione del Nord Italia per cui sono stati stimati un maggiore investimento e un più elevato impatto sulla produzione è la Lombardia, con un investimento pari a circa 5,99 miliardi di euro. che potrebbero tradursi in un impatto di 21,7 miliardi sulla produzione e nella creazione di oltre 133 mila posti di lavoro. C’è poi l’Emilia-Romagna, per cui Nomisma prevede una spesa di 3,29 miliardi di euro e un impatto di 11,9 miliardi, senza contare che gli interventi di riqualificazione permetterebbero di introdurre ben 73.053 nuovi occupati.
Sono invece 53.103 i posti di lavoro che si creerebbero in Veneto, a fronte di un investimento di circa 2,4 miliardi e un impatto sulla produzione di 8,7 miliardi di euro.
Il Green New Deal sul patrimonio pubblico, inoltre, garantirebbe un impatto di 4,3 miliardi in Friuli-Venezia Giulia, a fronte dell’investimento di 1,2 miliardi, generando anche occupazione aggiuntiva 26.598 lavoratori. E in Liguria, con una spesa di circa 849 milioni di euro, gli interventi di riqualificazione consentirebbero di realizzare un impatto di 3 miliardi e 18.869 posti di lavoro. Quasi identici fra loro i dati del Trentino-Alto Adige e della Valle d’Aosta, per i quali sono stati calcolati, rispettivamente, un investimento complessivo di 95,8 e di 95,5 milioni, un impatto di 347 e di 346 milioni, nonché la creazione di 2.130 e 2.122 posti di lavoro.
Il 97,5% delle imprese con almeno dieci addetti utilizza connessioni in banda larga fissa o mobile.
E’ uno dei dati che emergono dalla fresca indagine dell’Istat sui comportamenti in tema di digitalizzazione e sul relativo livello, misurato secondo 12 indicatori tecnologici. La ricerca ha evidenziato, fra l’altro, la stabilità della quota di aziende (il 62,6%) che fornisce ai propri addetti dispositivi portatili, quali computer portatili, smartphone, tablet e ipad, che permettono una connessione mobile a Internet per scopi lavorativi (la quota però sale al 96% per le grandi imprese); mentre aumenta la percentuale di addetti che utilizzano un computer connesso a Internet per la propria attività (53,2% dal 49,9% del 2019), in conseguenza anche della pandemia.
L’indagine dell’Istat ha colto altri segnali di reazione alle difficoltà indotte dall’emergenza sanitaria: fra questi, il deciso aumento di imprese con sito web, che rendono disponibili informazioni sui prodotti e servizi offerti (dal 34% del 2019 al 55% del 2020) e di quelle che utilizzano servizi cloud (dal 23% del 2018 al 59% del 2020).
Tra le imprese con almeno 10 addetti connesse a Internet in banda larga fissa, la velocità massima di connessione cresce con la dimensione aziendale.
Le pmi (10-249 addetti) connesse a velocità almeno pari a 30 Mbps sono il 75%, le grandi imprese il 90,5%. L’analisi per territori, comunque, mostra che a fronte di quattro territori – Sicilia, Umbria, Basilicata, Campania e la provincia di Bolzano- con una quota superiore al 40% di imprese connesse a Internet a velocità di download pari ad almeno 100 Mbps, il Piemonte evidenzia la quota del 37,6%. Inoltre, mentre la quota di imprese connesse con almeno 30 Mbps è pari a circa il 76% nel Mezzogiorno e nella media del Nord d’Italia, in Piemonte è del 69,4% (si attesta al 73,2% nelle regioni del Centro).
Quanto al grado di digitalizzazione, è stato rilevato che circa l’82% delle imprese con almeno 10 addetti si colloca a un livello ‘basso’ o ‘molto basso’ d’adozione dell’Ict, non essendo coinvolte in più di 6 attività tra le 12 funzioni considerate; il restante 18%, invece, ne svolge invece almeno sette, posizionandosi su livelli ‘alti’ o ‘molto alti’.
In particolare, relativamente agli strumenti di intelligenza artificiale, l’indagine mostra che
l’8,6% delle imprese con almeno 10 addetti dichiara di aver analizzato, nell’anno precedente, grandi quantità di informazioni (big data) ottenute da fonti di dati proprie o di altri attraverso l’uso di tecniche, tecnologie o strumenti software.
I big data vengono analizzati dalle imprese soprattutto internamente (7,4%) mentre il 2,8% esternalizza i servizi di analisi.
I dati più analizzati internamente sono generati dai social media (46,5% delle imprese), da informazioni di geolocalizzazione derivanti da dispositivi portatili (45,3%) e da dispositivi intelligenti e sensori digitali (31,1%). L’analisi di grandi quantità di dati ha riguardato circa un quarto delle grandi imprese, mentre solo il 6,2% di quelle di minore dimensione (10-49 addetti) ha estratto dai dati informazioni rilevanti.
L’Internet delle cose (Iot) riguarda dispositivi interconnessi che raccolgono e scambiano dati e possono essere monitorati o controllati via Internet. Li utilizza il 23,1%delle imprese con almeno 10 addetti. In particolare, tra le imprese che hanno fatto ricorso a dispositivi Iot, sono più frequenti quelle che usano dispositivi, sensori intelligenti, tag Rfdi o telecamere controllate da Internet per migliorare il servizio clienti (35,7%) e per ottimizzare il consumo di energia nei locali delle imprese (32,5%).
Altro dato interessante: si riduce la quota delle imprese con almeno 10 addetti che impiegano esperti Ict (dal 16% al 12,6%), mentre si conferma la presenza di specialisti informatici tra il personale delle imprese con almeno 250 addetti (72%, dal 73,1% nel 2019). Sebbene le imprese di maggiore dimensione siano anche le più attive nell’assumere o provare ad assumere specialisti Ict, anche per loro si registra una contrazione di quelle che, nel 2019, hanno reperito o cercato di reperire personale specializzato (dal 38,4% del 2018 al 36,3%) e si attesta al 17,3% la percentuale di imprese con almeno 250 addetti che dichiarano di aver avuto difficoltà a coprire posti vacanti per addetti con competenze informatiche.
Il 63,0% delle imprese dichiara di aver utilizzato nel 2019 personale esterno per la gestione di attività legate all’Ict quali manutenzione di infrastrutture, supporto e sviluppo di software e di applicazioni web, gestione della sicurezza e della protezione dei dati.
Il 1° febbraio del 2020 il Regno Unito ha cessato di essere un paese appartenente all’Unione Europea (UE) ed è diventato un “paese terzo” non appartenente allo Spazio Economico Europeo (SEE). Tuttavia nel corso del 2020 ha usufruito di un periodo transitorio, che si è concluso il 31 dicembre 2020, nel quale ha continuato a far parte del Mercato Unico Europeo e a beneficiare del quadro normativo dell’Unione Europea.
Dal 1° gennaio 2021 al Regno Unito non verrà più applicato il Regolamento 924/2009 e smi che comporta tra l’altro l’applicazione di condizioni comuni sui pagamenti effettuati all’interno dell’Unione, pur mantenendo la propria partecipazione ai Paesi dell’Area SEPA.
Pertanto ai pagamenti SEPA da e verso il Regno Unito saranno applicate le condizioni già previste nei fogli informativi e nei contratti per i pagamenti da e verso i Paesi non appartenenti all’Unione Europea e allo Spazio Economico Europeo – “Bonifici extra SEPA” (come già accade oggi per Andorra, Isole britanniche di Guersey, Man e Jersey, Repubblica di San Marino, Svizzera e Città del Vaticano) e non più quelle relative ai pagamenti SEPA – “Bonifici Sepa”.
Per le condizioni applicate si rimanda allo specifico foglio informativo “Bonifici” disponibile sul sito www.bancadelpiemonte.it alla Sezione “Trasparenza”.
La pandemia condiziona anche il commercio mondiale di vino, comunque in misure diverse. Così, mentre per la Francia si prospetta una chiusura del 2020 con le sue esportazioni ridotte di quasi il 18%, per l’Italia il calo sarà contenuto nel 4,6% e, pertanto, il valore delle vendite dei nostri vini all’estero risulterà ancora superiore ai sei miliardi di euro.
Un quadro confortante, se si considera l’aumento delle quote di mercato guadagnate dal “vigneto Italia”; allarmante, invece, se si tiene conto dell’asimmetria di un dato generale che cela forti ribassi in diverse fasce, a partire dalle piccole imprese ad alto livello qualitativo.
In termini assoluti, la contrazione stimata del valore delle importazioni mondiali di vino sarà di oltre tre miliardi di euro rispetto al 2019, soprattutto per effetto delle mancate vendite per più di 1,7 miliardi di euro da parte del market leader, la Francia. La previsione per l’Italia, invece, mostra una diminuzione di 300 milioni di euro, grazie anche al boom delle esportazioni nel primo bimestre dell’anno (+15%), che ha attenuato il passivo annuale.
L’Italia, dunque, è stata in grado di opporre anticorpi efficaci alla crisi. Il rapporto qualità-prezzo, una più variegata diversificazione dei canali di vendita e lo scampato pericolo dei dazi aggiuntivi negli Stati Uniti hanno consentito di ridurre le perdite all’estero, ma il rovescio della medaglia è fatto di tante piccole e medie aziende del vino che, al contrario delle altre, hanno perso i propri riferimenti commerciali – in particolare dell’horeca (hotel, ristoranti, catering) – e stanno pagando uno scotto molto più rilevante della media. Infatti, se le aziende italiane maggiormente presenti sui canali di vendita della Gdo (grande distribuzione) tengono e, talvolta, incrementano; calano, invece, anche oltre il 50%, le medio-piccole orientate sui canali retail e nell’horeca.
L’Italia, in ogni caso, sta aumentando sensibilmente le quote di mercato nei suoi due principali mercati esteri, che sono gli Stati Uniti (esportazioni 2020 a 1,7 miliardi di euro) e la Germania (918 milioni). Un risultato che rappresenta una mezza vittoria se si considera il calo generale del 10,1% delle importazioni da parte degli Usa e del 7,7% della Germania. Stop significativo, però, nel Regno Unito, con i produttori italiani e francesi che perderanno rispettivamente il 12,1% e il 16,7%, a fronte di una variazione positiva di quasi il 5% della domanda. Intanto prosegue la contrazione del mercato cinese (-29%) e di quello giapponese, che vira in negativo (-15,1%) dopo l’exploit del 2019, così come del Canada (-7,7%). Giù anche la domanda australiana (-3,8%) e russa. Comunque, la performance italiana risulta generalmente meno deficitaria rispetto ai concorrenti grazie alla tenuta di alcune piazze di peso, come la Svizzera (+4,3%) e la Svezia (+2,2%).
Quanto al 2019, Eurostat ha censito che la produzione venduta di vino (inclusi spumante, porto e mosto d’uva) nell’Ue è stata di circa 16 miliardi di litri. I maggiori produttori sono stati Italia, Spagna e Francia, seguiti da Portogallo, Germania e Ungheria. Gli Stati membri hanno esportato 7,1 miliardi di litri di vino, quasi la metà in Paesi extracomunitari (3,1 miliardi di litri), principalmente nel Regno Unito (0,69 miliardi di litri) e negli Stati Uniti (0,65 miliardi di litri), in Russia (0,28 miliardi) e Cina (0,25 miliardi di litri).
L’Italia è stata di gran lunga il primo esportatore di vino nel 2019, con vendite di 1,1 miliardi di litri fuori dalla Ue, che rappresentano il 34% delle esportazioni vinicole degli Stati comunitari.
Il nostro Paese ha preceduto anche la Francia (0,8 miliardi di litri) e la Spagna (0,7 miliardi di litri). Guardando poi i flussi di importazione, emerge che gli Stati Ue hanno importato un totale di 4,8 miliardi di litri di vino nell’anno passato. E solo il 16% di questi proveniva da Paesi extra Ue, in particolare dal Cile (0,17 miliardi di litri) e dal Sud Africa (0,16 miliardi di litri).
Il Piemonte è un’eccellenza del vino italiano.
Lo conferma anche l’ultima pagella di Bibenda, la Guida ai vini italiani edita dalla Fondazione Italiana Sommelier. Infatti, Bibenda ha collocato il Piemonte al primo posto per numero di vini premiati quest’anno (142), superiore anche a quello della Toscana, (129 premi). Fra l’altro, lasciando a molta distanza, le regioni inseguitrici, guidate dalla Sicilia (41 i vini premiati con i cinque grappoli), dal Veneto, quarto con 36 e l’Alto Adige quinto con 35. Non solo: le aziende della regione Piemonte sono riuscite a portare a casa più di un premio, segno della alta qualità e continuità della loro produzione.